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Ora puri e casti? È solo una finta. Nella Capitale si paga come prima

Franco Bechis
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Per chi vive a Roma da anni è stato un po' come vedere scoprire l'acqua calda: la procura della capitale ha trovato le prove dell'esistenza di un racket delle bancarelle a Roma, a capo del quale c'era la famiglia Tredicine. Non si è parlato di altro in questi anni, e tutti ricordiamo quanto accadeva puntualmente a piazza Navona dalla vigilia di Natale alla Befana. Polemiche politiche, svolte epocali, inchieste giornalistiche sulla gestione delle bancarelle e soprattutto le forche caudine da cui tutti dovevano passare: i Tredicine.

 

Ogni sindaco, ogni presidente del primo municipio, ogni politico qualcosa ha detto su quella famiglia promettendo: “quest'anno si cambia”. Ma le bancarelle lì tornavano di riffa o di raffa, ed erano sempre quelle dei Tredicine. Da ieri due fratelli della famiglia sono stati arrestati, uno è finito in carcere e l'altro ai domiciliari. Con loro sono finiti nei guai funzionai del comune di Roma, sindacalisti, esponenti di spicco della comunità bengalese che avevano organizzato un racket nel racket. Nell'ordinanza cautelare di ben 158 pagine si racconta una Roma che è sotto gli occhi di tutti e che evidentemente non si voleva vedere. Piccola e grande corruzione, prepotenza, vere e proprie minacce e violenza che accompagnavano l'assegnazione dei posti più ambiti delle bancarelle: quelli che si vedono in via Cola di Rienzo, vicino al Vaticano e nei posti chiave del centro città.

 

Chi doveva dare i permessi negli uffici di Roma Capitale vendeva quella funzione, e lo faceva con la complicità dei Tredicine, di sindacalisti del settore, di manovalanza della malavita: ognuno si metteva in tasca piccole e meno piccole somme. Uno dei sindacalisti commentava così il 20 dicembre 2018 l'aria che si respirava all'interno del Comune di Roma amministrato già da due anni dall'attuale sindaco Virginia Raggi (che non ne sapeva nulla e infatti nell'indagine non è coinvolta) : “..per me stiamo ritornando a Tangentopoli... prima hanno sgomitato pe' fa vede che erano puri e casti, poi...”. E' l'affresco di un ambiente che non è mai cambiato davvero e che si autogoverna in questo modo al di là di chi amministri la città: è la dimostrazione che i veri comitati di affari non li ha smontati nessuno, incapace pure di vederli.
Vendendo permessi, licenze e turni (le mazzette sono state poi trovate dagli inquirenti ovunque, persino nascoste dentro il sellino di una cyclette) intorno a quelle bancarelle si è creata una vera e propria economia criminale: i soldi venivano usati dal racket bengalese anche per fare prestiti usurari alle vere vittime di questa vicenda: gli ambulanti, quelli che si sudavano la giornata dietro la bancarella. Il sistema è saltato perché uno di loro (un bangladino) che non ce la faceva più a pagare il pizzo è andato a spiegare tutto alla polizia chiedendo protezione. L'indagine è durata a lungo ed era già chiusa nel 2019 e i provvedimenti cautelari sono scattati solo ora, perché all'interno della comunità del Bangladesh è scattata la caccia serrata al “traditore”, facendo circolare voce che appena scoperto sarebbe stato giustiziato. 

Siamo tutti più sollevati nel sapere che sia finito nelle maglie della giustizia chi si comportava in questo modo. Ma è bene ricordare che in questa inchiesta i veri ambulanti sono le vittime, e che ci sono anche sindacalisti e politici che facevano legittimamente battaglie sulla direttiva Bolkestein e per questo non è giusto finiscano nel tritacarne mediatico dell'inchiesta. Quel che si legge in quelle pagine però è assai utile per dare- lo dico con un eufemismo- un'occhiata vera a due fenomeni che nemmeno chi governa Roma vuole guardare davvero. Il primo è la anche piccola corruzione che ancora dilaga negli uffici capitolini. Il secondo è l'organizzazione della comunità del Bangladesh che tante perplessità suscita.
 

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