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Non facciamo il funerale a Renzi. Il Pd ha un futuro grazie a lui

Alessandro Giuli
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È sin troppo facile infierire su Matteo Renzi e sulla scoppola che ha rimediato alle consultazioni locali dell’altroieri. È vero che la sua Italia Viva è stata ininfluente per l’esito elettorale in Toscana – inchiodata poco sotto il 5 per cento, punteggio inferiore alla distanza tra il neogovernatore dem Eugenio Giani e la rivale leghista Susanna Ceccardi – e così anche in Campania per la schiacciante vittoria di Vincenzo De Luca; quanto a Veneto e Puglia, Daniela Sbrollini e Ivan Scalfarotto si sono attestati rispettivamente all’1 e al 2 per cento (in quest’ultimo caso compreso il contributo di +Europa di Emma Bonino e Azione di Carlo Calenda).

Insomma il risultato è modestissimo, malgrado l’ex premier abbia provato a enfatizzare lo sforzo politico e di mobilitazione generale innescato dai suoi. E tuttavia la circostanza non autorizza a intonare un canto funebre nei confronti del progetto renziano né, peggio ancora, a giudicare irrilevante la sua vicenda politica nell’ambito della sinistra attuale. E qui stiamo parlando del Partito democratico, giunto a un importante bivio: continuare nel solco del riformismo a vocazione maggioritaria oppure ridursi a un roccioso agglomerato di minoranze nostalgiche riunite intorno alla vecchia ditta e bisognose di vampirizzare l’elettorato grillino per guadagnare (poco) terreno?

Il primo a conoscere la risposta esatta è Nicola Zingaretti, il quale ha un rapporto ondivago con Renzi ma è consapevole che il messaggio rinnovatore del renzismo è stato inoculato durevolmente nella parte migliore del Pd. Di là dai riflessi sovietizzanti dell’attuale segretario e dalle pose a metà tra il cesarismo e il bullesco del senatore semplice di Scandicci, c’è da salvare e custodire un bel pezzo di storia della sinistra più avanzata e post novecentesca.

Il renzismo è appunto questo, un riformismo copernicano che ha ribaltato lo status quo di un partito seduto sull’inerzia di un lignaggio totalitario e amministrato da una nomenclatura polverosa. Nel bene e nel male, Renzi ha rottamato e svecchiato e ripulito la ditta dalle sue scorie innestandovi una «narrazione» europea, post ideologica, aperta al dialogo trasversale con l’arcinemico berlusconiano e sopra tutto orientata a un pregevole riassetto costituzionale.

In poche parole: se oggi il Pd cerca ancora di aprirsi al mondo esterno e includere spezzoni moderati; se cerca di riannodare i fili di una riforma costituzionale che superi il bicameralismo perfetto per riequilibrare verso il centro il rapporto tra Stato e Regioni, lo dobbiamo al bambino che mangiava i comunisti e che ha sfidato la sorte e numerosi poteri costituiti proponendo anche una legge elettorale di tipo schiettamente maggioritario. Il funesto referendum del 4 dicembre 2016, con la sua bruciante sconfitta, ha sancito l’inizio di un declino considerato troppo frettolosamente ineluttabile, come ha dimostrato la nascita del Conte bis propiziata dal giovane gigliato e la successiva sua scissione parlamentare dal Pd.

Oggi si rischia di commettere lo stesso errore, oltretutto dimenticandosi che il renzismo può esistere anche senza Renzi ed è decisamente meglio di un Renzi non più renziano che dovesse accettare un testacoda proporzionalista. Quando Luciano Violante, figura storica della migliore sinistra ispirata dall’obiettivo di una Concordia nazionale, vagheggia una proposta costituzionale d’iniziativa popolare per il bicameralismo differenziato (è accaduto pochi giorni fa), ci dimostra che la tradizione socialdemocratica può coniugarsi con la freschezza di un’intuizione liberale solo apparentemente abortita. Diamo tempo al tempo, e non perdiamolo fantasticando su improbabili funerali renziani.

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