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Effetto Covid sulle Regionali. Da Zaia a De Luca, ora tutti devono fare i conti con i super-governatori

Carlo Solimene

Chiamatelo effetto Coronavirus, se volete. Fatto sta che il dato più significativo uscito da questa tornata di Regionali, a parte quello politico nazionale, è la conferma di tutti i governatori uscenti ricandidati. La popolazione si è stretta attorno agli amministratori che hanno gestito, a volte con provvedimenti più restrittivi rispetto a quelli assunti dal governo, l’emergenza pandemica. Un aspetto che è evidente soprattutto nei trionfi di Luca Zaia in Veneto e Vincenzo De Luca in Campania (quest’ultimo, prima dell’epidemia, rischiava addirittura di non essere ricandidato dal Pd). Ma anche nei successi larghi di Giovanni Toti in Liguria e di Michele Emiliano in Puglia.

Non finisce qui, perché c’è un altro fattore da analizzare con attenzione, ed è quello che riguarda il travolgente successo delle liste personali dei governatori. Sia Giovanni Toti, bel oltre il 20% con la sua «Cambiamo!», che Vincenzo De Luca, superano le percentuali dei primi partiti della loro coalizione. Ma, da questo punto di vista il caso scuola è ovviamente quello del «Doge» Luca Zaia, la cui lista personale raggiunge quasi la metà dei votanti e «triplica» i consensi della Lega. Un messaggio nazionale non solo a Matteo Salvini, ma al quadro partitico in generale. Perché se lo straconfermato governatore veneto decidesse di schierare una sua forza personale anche nella partita delle politiche, con il milione di voti raccolti nel solo Veneto sarebbe già in grado di superare un’eventuale soglia di sbarramento fissata al 3%. Un dato che più di tutti fotografa il successo personale dell’ex ministro dell’Agricoltura.

  

La somma di queste due contingenze fotografa il vero fenomeno partorito da queste Regionali. La nascita della figura dei «super governatori». Così come gli anni ’90 furono quelli del cosiddetto «partito dei sindaci», gli anni ’20 del terzo millennio portano alla ribalta una categoria che ha dalla sua la fortissima legittimazione di un sistema elettorale che premia le leadership e garantisce un vincitore sicuro e «stabile» per cinque anni. Praticamente l’opposto di quanto accade con il governo nazionale. Non è un caso se anche il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, e il suo principale competitor interno Stefano Bonaccini, siano saliti alla ribalta grazie ai successi nelle rispettive Regioni.

Ed è proprio la rinnovata centralità dei governatori il fattore politico più insidioso con il quale il governo dovrà fare i conti nei prossimi mesi. Non solo perché molti di loro torneranno alla carica con le storiche battaglie (l’autonomia per Luca Zaia, la decarbonizzazione dell’Ilva per Michele Emiliano), ma anche perché sarà con i presidenti di Regione che Giuseppe Conte dovrà trattare per la gestione dei miliardi del Recovery Fund, in una giungla di competenze concorrenti che la famigerata riforma del Titolo V della Costituzione di dalemiana memoria ha reso ancora più inestricabile.

Anche perché gli stessi governatori «amici» della maggioranza giallorossa così amici, in realtà, non sono. Basti pensare ai due «sceriffi» che hanno salvato il risultato elettorale del Pd, De Luca ed Emiliano, che hanno faticato non poco per guadagnarsi la ricandidatura e hanno vinto contro pezzi della stessa maggioranza di governo che avevano tentato in tutti i modi di azzopparli. Immaginarli «proni» ai desiderata di Conte e Di Maio, insomma, appare improbabile.

A dimostrare quanto il ruolo dei presidenti di Regione si rivelerà cruciale sono anche le parole di Matteo Salvini, che a spoglio ancora in corso ha rivendicato per il centrodestra la presidenza della Conferenza delle Regioni - attualmente appannaggio di Stefano Bonaccini - a causa dei nuovi rapporti di forza, con il centrodestra che amministra ben 14 enti contro i 5 «superstiti» in mano al centrosinistra. Una situazione resa ancora più sbilanciata dalla vittoria di Francesco Acquaroli nelle Marche, unica Regione ad aver cambiato colore in questa tornata.

Si tratta di un risultato, quest’ultimo, passato in secondo piano visto che le partite «decisive» erano considerate quelle di Toscana e Puglia. Ma, a ben vedere, la conquista delle Marche da parte del centrodestra è in qualche modo storica, visto che a queste latitudini il centrosinistra - guidato di volta in volta da Dc, Partito socialista e recentemente dal Pd - governava ininterrottamente da cinquant’anni. Un’altra roccaforte ammaina la bandiera rossa dopo che l’anno scorso era già toccato all’Umbria. Al di là dell’ovvio sospiro di sollievo per un risultato assai migliore rispetto alle previsioni della vigilia, Democratici e Cinquestelle dovranno interrogarsi anche su questo. Nel partito dei governatori, Conte è in schiacciante minoranza.