Al Referendum vince il sì. Di Maio si riprende un partito che non c'è più
Col Parlamento dimagrito i grillini pagano il prezzo più alto in termini di posti
Sorrisi e mugugni. All’immaginaria lotteria sul taglio dei parlamentari vince il sì nel referendum. L’unico ad esserne sinceramente contento è Nicola Zingaretti. In fondo, la bilancia ha contribuito anche lui a spostarla, anche se un pezzo di partito gli ha remato contro. La bara era pronta, tra referendum e regionali ha seppellito lui i suoi avversari interni.
Il sorriso di Luigi Di Maio è da commedia perché sarà di breve durata: non c’è traccia dei Cinque stelle nelle elezioni dove i voti si contano, le regionali. Spariti dai radar, sono rimasti sbaragliati. Riusciranno a tagliare i parlamentari, ma soprattutto i loro, visto che sono decimati dai consensi che si volatilizzano. Quando prima o poi si voterà torneranno in pochini in Parlamento.
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Vito Crimi ringrazia Di Maio, Di Maio ringrazia Crimi, ma la fine reale del film prevede tre regioni alla destra, tre alla sinistra e loro non più ritenuti all’altezza di governare. È la cruda realtà che emerge a settembre 2020.
Il Sì referendario era stato preceduto dal voto del 9 per cento del Parlamento alla riduzione di deputati e senatori: il 70 a 30 circa del referendum indica qualche elemento di distanziamento politico tra Paese reale e Paese legale.
Zingaretti comunque apre la strada – dice lui – a una stagione di riforme e crediamo che pecchi di illusionismo. Non che non ne faranno, ma chi può giurare sulla loro qualità?
L’aria che si respira è abbondantemente fetida. Basti pensare alla riesumazione della legge elettorale proporzionale, che avrà ancora più vigore. L’unica arma che resta in mano a Matteo Renzi e alle sue truppe spulciate dal voto è frignare per lo sbarramento più basso possibile. Aggiungete a tutto questo il no alle preferenze e ai collegi maggioritari e vedrete che razza di cambiamento saranno capaci di produrre i «vincitori». Altro che rappresentanza popolare…
Basta mettersi nei panni di chi finora stava accasato tra i magnifici mille di Montecitorio e Palazzo Madama e ora sa che ballerà pure lui (o lei) perché i posti riservati ai nostri «rappresentanti» si riducono di 345 unità.
Toccherà a me o al vicino di banco? I tengo famiglia avranno ragione per dubitare sul proprio futuro e si difenderanno senza se e senza ma.
Almeno risparmieremo quattrini, dicevano i sostenitori del referendum. Per mettere soldini nel salvadanaio bisognerà però aspettare il termine della legislatura: i mille restano mille fino al 2023.
Il problema vero della composizione del Parlamento si porrà comunque nel 2022, quando bisognerà eleggere il nuovo capo dello Stato.
In 600 e non più mille: così ha stabilito il popolo italiano. Davvero si può agevolmente sostenere che si può tranquillamente votare per l’inquilino del Quirinale con numeri così diversi di Grandi Elettori come se fosse la stessa cosa?
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Tra l’altro, pare una pretesa stravagante la stessa idea di fondare una maggioranza sul presidente della Repubblica da mandare al Colle per sette anni. Da una parte perché bisognerebbe avere il coraggio di non puntare sulla sola compagine parlamentare di governo per chi deve rappresentare la nazione; dall’altra perché nessuno potrà scommettere un centesimo sulla tenuta dei parlamentari grillini. L’elezione del successore di Sergio Mattarella – se non dovesse esserci il suo bis – avverrà poco prima della scadenza della legislatura. E chi li terrà deputati e senatori – a partire dai pentastellati senza prospettiva a caccia di una sistemazione per se stessi e le loro famiglie?
A meno che non si abbia il coraggio di approvare una norma – l’ha scritta Fratelli d’Italia che stavolta ha superato i voti dei Cinque stelle – per eleggere direttamente il Capo dello Stato.
Se non succede neppure questo, rimane difficile dire di no anche alla Lega, che rimane pure dopo questo voto il primo partito italiano, quando afferma che sarebbe strano avere un Parlamento non in linea con la Costituzione nella sua composizione e ancora più strano pensare che un Parlamento sfiduciato dai cittadini possa scegliere il prossimo Presidente della Repubblica.
La spallata al governo non è arrivata, ma la confusione politica resta enorme.