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Processo al Viminale: il sottosegretario M5s Carlo Sibilia in tribunale per vilipendio

Francesco Storace
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Anche se si nasce piromani, alla fine bisogna diventare pompieri. E il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia, Cinque stelle, dovrà tentare di tutto per non mettere in difficoltà il governo: il Viminale sotto accusa per vilipendio al Quirinale in era Napolitano è un caso da Guinness dai primati.

Il 16 dicembre Sibilia sarà infatti alla sbarra in tribunale a Roma per avere attaccato ferocemente l’allora capo dello Stato. Si era nel 2014, era a mille la polemica sul processo di Palermo alla mafia, e quello che era un parlamentare grillino che mai avrebbe immaginato di ricoprire una posizione di governo, se ne uscì con un tweet che fece imbufalire il permalosissimo presidente della Repubblica. 

«Perchè secondo voi impediscono agli scagnozzi Riina e Bagarella di vedere il boss?», scrisse Sibilia, e non era esattamente un complimento per Giorgio Napolitano. Una frase che fu ritenuta dalla procura di Roma offensiva dell’onore e del prestigio del presidente della Repubblica. Di qui il processo per un reato che si prescrive dopo sette anni e mezzo. Se non ci saranno ritardi eccessivi si dovrebbe arrivare almeno al primo grado di giudizio. E poi fino alla sentenza definitiva, se anche Sibilia rinuncerà alla prescrizione. (Ci sono precedenti…).

Il sottosegretario ieri ha tentato di uscire dall’angolo con una dichiarazione dopo la decisione del Gup di mandarlo a processo: «Si tratta di un fatto risalente al 2014. Parliamo della denuncia di un privato cittadino che verrà dibattuta nelle sedi opportune. Dal canto mio, per opportunità e correttezza, dico solo che ho fiducia nella magistratura». Per poi aggiungere: «Da sempre sono a difesa delle istituzioni. Il mio - spiega l’esponente pentastellato - era un giudizio politico e nulla aveva a che fare con il ruolo e l’onorabilità della carica del Presidente della Repubblica».

Una dichiarazione, questa di Sibilia, che merita un’analisi non superficiale. Egli dovrebbe innanzitutto spiegare che cosa significa il riferimento al 2014. Sei anni fa era uno scavezzacollo e oggi un attempato esponente delle istituzioni? Oppure confida proprio nella prescrizione, come si fa notare negli ambienti di governo per evitare uno scontro micidiale nei Palazzi più importanti della politica?

E poi quel riferimento alla denuncia di un privato cittadino diventa anch’essa un segno del cambiamento profondo subito dai Cinque stelle. Finora si definivano anch’essi “cittadini” nelle istituzioni mentre ora un “cittadino” che li trascina a processo sembra quasi da disprezzare per aver osato tanto.

Lo stesso “giudizio politico” sulla frase di allora che invoca senza voler contestare – giura oggi – “il ruolo e l’onorabilità” del Capo dello Stato è abbastanza curioso visto che nella sostanza diede a Napolitano del “boss” degli “scugnizzi Riina e Bagarella”.

Dal sottosegretario agli Interni di stampo pentastellato ci saremmo piuttosto aspettati una censura del reato di vilipendio. Perché quella che lui chiama “critica politica” al presidente della Repubblica può costare fino ad una condanna a cinque anni di reclusione. Un reato che appare anacronistico ai più, ma che il guardasigilli grillino Alfonso Bonafede si è ben guardato dal toccare nonostante il dibattito, davvero vasto negli anni, su una questione che si sarebbe dovuta superare da tempo. Soprattutto di fronte a presidenti della Repubblica come Napolitano che certo non si astennero nell’intervenire a gamba tesa nel dibattito politico.

C’è da giurare che il 16 dicembre il tribunale di Roma sarà affollato. Il processo a un membro di governo a causa di Napolitano sarà imperdibile. E nemmeno l’ex presidente potrà dire ufficialmente alcunché per fingere di perdonare l’imputato: il reato è contro l’ufficio, ricorda presidente?

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