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Accuse e litigi in maggioranza. E Conte si aggrappa al Quirinale

Pietro De Leo
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L’intervento di Giuseppe Conte alla festa del Fatto Quotidiano è utile a tracciare la radiografia dello stato di (non) tranquillità del Presidente del Consiglio e del clima che si respira in maggioranza. Ci sono tre elementi che vanno messi in fila. Il primo è il modo tagliente, di forzata eleganza, con cui ha respinto le evocazioni di Mario Draghi. Avrei voluto proporlo come Presidente della Commissione Ue, ha detto Conte, ma lui si sentiva stanco (insistendo molto su questo punto). Quasi a voler sottolineare l’inadeguatezza dell’ex governatore Bce per ruoli gravosi. Il secondo punto è la sottolineatura della conflittualità interna tra i partiti della maggioranza, raffrontandola a quella della coalizione di centrodestra invece più coesa. Il terzo punto è il suo enfatico gradimento verso un secondo mandato al Quirinale per Sergio Mattarella, quel Presidente della Repubblica che sì in molti frangenti lo ha tollerato, ma tutto sommato non ha mai esercitato richiami sostanziali verso la conduzione di Palazzo Chigi, nemmeno di fronte all’evidente utilizzo disinvolto dei Dpcm.

Negli ultimi giorni, il sollecito all’elaborazione del piano di impiego del Recovery Fund è forse l’intervento più rilevante, tuttavia si può dire che dal Colle, verso Giuseppe Conte, è sempre arrivata una sostanziale tutela. Tuttavia, al di là di forzate dosi di calmante iniettate al dibattito interno alla maggioranza per via dell’imminente appuntamento elettorale, ci sono vari elementi che definiscono il profilo di una coalizione litigiosa. Ieri Luigi Di Maio, intervenendo a Grottaglie, ha detto: «Nessuno pensi di minare il governo e il nostro rapporto con il Pd». Chiaro messaggio interno, riferito ad un Movimento che, diventato a tutti gli effetti un partito, sconta il concretizzarsi di due linee: quella promossa da Grillo, per un’alleanza con il Pd, e quella di Casaleggio jr, che non ha mai visto di buon occhio l’intesa. E gli Stati Generali del prossimo autunno dovranno anche definire che tipo di leadership (collegiale e individuale) il Movimento andrà ad adottare.

L’altra questione riguarda il Pd, dove l’appuntamento elettorale del 20 e 21 segnerà una probabile ordalia per la leadership di Nicola Zingaretti, su cui incalza il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, l’unico volto vincente dei dem degli ultimi anni che ha respinto l’assalto di Zingaretti nella mitologica regione rossa. L’eventuale cambio di leadership segnerebbe il ritorno dei «renziani» al timone del Nazareno. A proposito, al leader di Italia Viva sono state attribuite parole da de profundis su Conte. E un altro segnale è rappresentato dalle parole dell’ex sindaco di Firenze in Aula sul Decreto Semplificazioni: «Dopo le regionali – ha detto – aspettiamo il presidente del consiglio in Aula». Se non è un avviso di sfratto, poco ci manca. Al di là delle dinamiche di partito, poi, c’è anche una questione che riguarda i singoli temi. Prova ne è la sortita dei deputati regionali siciliani del Movimento 5 Stelle, che hanno chiesto le dimissioni al ministro Lamorgese. Solo un assaggio delle conflittualità che, sul tema immigrazione ma non solo, possono riesplodere dopo il 21. Ed ecco che suonano profetiche le parole di Bettini, grande auspice di quest’alleanza, sul fatto che sarà necessario eseguire all’Esecutivo «più di un tagliando».
 

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