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I Cinque Stelle al governo hanno rovinato i democratici

Riccardo Mazzoni
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Dopo la generale crisi di consensi, la sinistra europea sta progressivamente abbandonando le sponde del massimalismo, e la dimostrazione arriva sia dal Regno Unito - dove alla cacciata di Corbyn il Labour è seguita la scelta del moderato Starmer - sia dalla Germania, con la Spd che ha puntato sul vicecancelliere Scholz per affrontare la sfida elettorale del dopo-Merkel: una svolta nel segno del pragmatismo, la scommessa storica sul fatto che la più disastrosa crisi economica dal dopoguerra non può essere gestita nel medio-lungo periodo attraverso le vecchie politiche assistenziali, né tantomeno strizzando l’occhio alle derive populiste di sinistra.

In questo panorama l’unica eccezione, tanto per cambiare, è il Pd, che nacque con l’autoproclamata vocazione maggioritaria-riformista e ora è invece ridotto a farsi dettare l’agenda dai proclami di un comico, come nel caso recentissimo della rete unica per le telecomunicazioni, o della statalizzazione di Autostrade, o del mantenimento del reddito di cittadinanza. Ma questo non deve stupire: l’Italia repubblicana ha sempre dovuto fare i conti con l’anomalia politica di una sinistra dominata prima dall’ipoteca del più grande partito comunista d’Occidente, e ora dalla perpetuazione del contratto di potere cattocomunista il cui ultimo terminale si chiama appunto Pd. Il cui riformismo è sempre stato una mera finzione, tanto che l’unico che ci ha provato davvero – Matteo Renzi – è stato vissuto dalla nomenklatura rossa come un corpo estraneo, una breve e scomodissima parentesi naufragata nel referendum costituzionale del 2016, e la sua scissione è stata vissuta come l’inevitabile epilogo di una convivenza impossibile.

Quando nacque il governo rossogiallo – ironia della storia, voluto proprio da Renzi – si disse che era un modo non solo per fermare Salvini, ma anche per “romanizzare i barbari”. Ebbene, quasi un anno dopo, sta accadendo il contrario, perché la contaminazione reciproca ha finito per accentuare il massimalismo che il Pd aveva già ben iscritto nel suo dna, mentre i Cinque Stelle dettano legge, nonostante siano sprofondati in una grottesca faida tra correnti accompagnata dal ripudio di tutti i sacri principi, come attesta plasticamente la consultazione ferragostana sulla trasformazione in partito e sullo sdoganamento, addirittura, del triplo mandato. In questo senso, l’inchino a Grillo del sindaco di Milano, Beppe Sala, finora considerato il massimo esponente del riformismo meneghino, per pietire un’alleanza alle prossime elezioni comunali, assume il significato di una capitolazione definitiva alla strategia dell’Elevato e del suo vice facente funzione, il segretario Zingaretti, che insieme all’ideologo di turno – Bettini – vorrebbero traghettare la sinistra italiana verso l’ultimo stadio: quello della decrescita felice e dell’internazionalismo filocinese e venezuelano. Tutto con l’unico, ossessivo mantra di mantenere a tutti i costi il potere, come il Pd sta del resto facendo da dieci anni quasi senza soluzione di continuità, e senza mai aver vinto un’elezione. Una vocazione ripescata direttamente dalla dottrina comunista ed esplicitata non a caso ieri da un reduce del Pci come Luigi Berlinguer, secondo il quale “voler governare è un obbligo, non un difetto”. E proprio in questa ottica rientra anche la conversione al sistema proporzionale che Zingaretti ha una fretta matta di approvare. Altro che timori per i rischi alla rappresentanza popolare.

C’è però un dato numerico, ma soprattutto politico, sul quale i dirigenti democratici farebbero bene a riflettere: nel giugno del 2019, dopo un anno di governo gialloverde con i Cinque Stelle, Salvini aveva raddoppiato i consensi (dal 17% delle politiche al 34 delle Europee), dimezzando contestualmente i voti grillini. Pur essendo il partner minoritario, era riuscito dunque a spostare l’asse politico della coalizione verso la Lega approfittando dell’inesperienza e dell’incapacità politica degli alleati.

Dopo un anno di governo rossogiallo, invece, il Pd staziona intorno al 20% e il Movimento non cala ulteriormente, anzi recupera qualcosa. Un’operazione elettoralmente a somma zero, quindi, ma che sta causando danni gravissimi al Paese. Ci aspetta un autunno terribile sul piano economico e sociale, ma la maggioranza è impegnata in tutt’altre faccende: l’assalto alla diligenza del Recovery Fund, la moltiplicazione dei mandati grillini, la riforma elettorale zingarettiana, l’eventuale rimpasto di governo. In questa situazione surreale, la ricandidatura della Raggi a sindaca di Roma con la benedizione di Grillo assomiglia molto a uno sberleffo, alla ciliegina su una torta avvelenata. Chissà se Zingaretti alla fine manderà giù anche questa.

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