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Ecco la verità sul Recovery Fund. All'Italia solo 25 miliardi

Con il rimborso trentennale degli Eurobond dimagrisce la dotazione di Roma

Carlo Solimene
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Una pioggia di soldi sta per piovere sull’Italia. Questo è il dato certo dopo che il Consiglio europeo ha trovato l’accordo per il Recovery Fund. Dal 2021 al 2027 il bilancio della Commissione europea si arricchirà di 750 miliardi che saranno utilizzati per aiutare i singoli Stati ad affrontare la crisi economica determinata dal Coronavirus. Di questi 390 saranno erogati a fondo perduto, altri 360 sotto forma di prestiti. All’Italia, stando al complesso algoritmo che ha determinato la suddivisione, ne dovrebbero spettare ben 209: 82 miliardi di sussidi e 127 di prestiti.

Ha quindi ragione la macchina comunicativa di Palazzo Chigi che ha parlato di trionfo di Giuseppe Conte a Bruxelles? Sì e no. Nel senso che senza dubbio il premier è tornato in Italia con un risultato in linea con le aspettative della vigilia. Ma in attesa della versione dettagliata dell’accordo, già la sintesi diffusa dal Consiglio europeo apre la strada a una serie di potenziali «trappole» per il Paese che, sebbene lasciano il segno positivo alla dotazione economica ottenuta da Roma, ne ridimensionano comunque notevolmente la portata. Vediamo perché.

 

I tempi innanzitutto. Il 70% dei soldi sarà impegnato nel 2021-2022, mentre il restante 30% sarà distribuito entro il 2023. Tradotto, l’Italia avrà a disposizione circa 150 miliardi nei primi due anni, una sessantina nel terzo anno. Ma davvero quei soldi arriveranno a destinazione? Il dubbio è lecito. Le erogazioni, infatti, saranno condizionate alle riforme che il Paese dovrà effettuare e che, in assenza di indicazioni più precise, dovranno essere quelle richieste dall’Europa nelle varie raccomandazioni che la Commissione fa ai Paesi anno per anno. Per l’Italia sono sostanzialmente sempre le stesse: contrasto all’evasione fiscale, alla corruzione, al lavoro sommerso, taglio delle agevolazioni fiscali, semplificazione delle agevolazioni fiscali, razionalizzazione delle aliquote delle tasse, snellimento dei tempi della giustizia, riforma del catasto ecc. Sostanzialmente, per avere i soldi dovremo fare quello che l’Europa ci chiede e che finora abbiamo ignorato...

 

 

Non finisce qui, perché stando al comunicato diffuso dal Consiglio europeo «l’erogazione delle sovvenzioni avverrà solo se saranno raggiunti i traguardi e gli obiettivi concordati stabiliti nei piani di recupero e di resilienza». L’impressione, in assenza di ulteriori chiarimenti, è che i Paesi siano chiamati ad anticipare almeno in parte le cifre. Col dubbio che se le riforme non dovessero soddisfare l’Europa, i soldi non arriveranno.

 

Qui si inserisce anche il punto del cosiddetto «freno di emergenza». Se uno o più Stati membri ritengono che vi siano «gravi deviazioni dal soddisfacente raggiungimento degli obiettivi, possono chiedere l’intervento del Consiglio europeo. In ultima istanza toccherà alla Commissione decidere sulla questione con maggioranza qualificata.

Ma l’aspetto su cui in pochi si sono concentrati è ancora un altro. E cioè che l’intero importo del Recovery Fund, 750 miliardi, sarà finanziato con l’erogazione di debito da parte della Commissione. L’Italia, cioè, non dovrà solo restituire i 127 miliardi ottenuti in prestito, ma dovrà anche partecipare al riborso complessivo dei 390 miliardi che l’Europa erogherà a fondo perduto. Stando al peso di Roma (circa il 13,5% dell’intera economia Ue), il nostro Paese, tra il 2028 e il 2057, dovrà contribuire maggioramente al bilancio europeo con 55 miliardi propri (la stima è dell’eurodeputato e leader di Azione Carlo Calenda). In pratica, degli 80 miliardi «a fondo perduto» l’Italia dovrà comunque restituirne circa due terzi, seppure con tempi lunghissimi (37 anni da oggi). Il ché fa scendere l’«attivo» ottenuto a Bruxelles da Giuseppe Conte a 25 miliardi. Sempre tanti, ma molti di meno di quelli propagandati dal premier.

 


Non finisce qui, perché per garantirsi almeno un ritorno iniziale della spesa l’Europa ha fissato - a partire dal 1° gennaio 2020 - l’introduzione di una nuova «Plastic tax» che varrà 80 centesimi di euro per ogni chilo di plastica non riciclata. L’aspetto non è banale, perché in Italia una «Plastic tax» nazionale esiste già e pesa per 45 centesimi. Sommata a quella europea, l’imposta varrà 1,25 euro per ogni chilo di plastica. Se si considera che quando il governo Conte bis ipotizzò di fissare il valore di quell’imposta a un euro scoppiò una rivolta da parte dei settori colpiti, c’è da aspettarsi un’altra marea di scontento, specie in un momento economicamente già complesso.

Dulcis (si fa per dire) in fundo, c’è la questione dei cosiddetti «rebates», ovvero gli sconti sul contributo al bilancio europeo che i cosiddetti Paesi frugali (e la Germania) hanno ottenuto per dare il via libera all’accordo. In tutto, contribuiranno con 7,603 miliardi in meno. Che saranno compensati da tutti i Paesi delll’Unione in percentuale al loro Reddito nazionale lordo. L’Italia dovrà contribuire per il 13,5%. Fa un miliardo giusto giusto. La ciliegina su una torta più indigesta di quanto si pensasse.

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