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Crisi, i mercati ci mandano al voto: la fine del governo Conte

Luigi Bisignani
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Caro direttore, se il vocabolo “spread” sancì la fine del governo Berlusconi, “debito” rischia di diventare quello fatale per il premier Conte e per la sua scalcagnata maggioranza. Un debito non più sostenibile, che però questa volta non riguarderà solo lo Stato, ma anche le aziende e le famiglie italiane, ormai allo stremo dopo che proprio Conte le ha incentivate a chiedere prestiti.

A sferrare il colpo di grazia, le due donne più importanti dell’Esecutivo, il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, con l’improvvida uscita sui possibili disordini sociali nel prossimo autunno, e il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, con la telenovela delle concessioni autostradali che ha fatto inorridire i fondi internazionali e, da ultimo, con le sue contorte disposizioni che stanno paralizzando Genova, la città con il primo porto italiano, isolandola dal resto del mondo. Entrambe messe subito a tacere da “Giuseppi”, per poter guadagnare tempo e continuare a decretare indisturbato grazie alla proroga dello stato d’emergenza. Nel frattempo, volano coltelli tra il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, il Direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera, e la Ragioneria generale dello Stato che va a braccetto ormai con la Corte dei Conti.

Questa situazione di caos totale è ben attenzionata dalle agenzie di rating internazionali che, dai documenti preparatori ai giudizi che emetteranno entro fine anno (23 ottobre Standard & Poor’s, 4 dicembre Fitch, dopo lo scampato pericolo di venerdì, 6 novembre Moody’s), pare declasseranno il rating dell’Italia creando inevitabili ripercussioni sui mercati, per cui i nostri titoli varranno poco più delle “Canistracci Oil” di Renato Pozzetto. Verranno così definitivamente al pettine i nodi dello stallo totale sulle questioni Ilva, Tav e Autostrade, ma sarà troppo tardi per scioglierli, con lo spettro del “rischio Paese” che incombe. La totale assenza decisionale del Governo su temi così importanti e improcrastinabili, unita alle inutili schermaglie con le opposizioni su questioni minori, non consentirà di porre le basi per ripagare nel lungo periodo un debito che, secondo le ultime previsioni della Commissione Ue, nel 2020 raggiungerà il 170% del Pil, esponendo l’Italia ad un irrimediabile ‘downgrade’ come Mario Draghi ripete in ogni suo incontro privato.

A valle di questo disastro annunciato, sullo scacchiere internazionale si giocano invece partite fondamentali tra due blocchi di potere rappresentati rispettivamente dalla Federal Reserve, con ancora Draghi mattatore assoluto e forse, who knows, un giorno primo Presidente non statunitense di tale organismo, e dal sancta sanctorum della finanza ebraica ed americana, con a capo gli Elkann, i Rockefeller ed i Buffet. Chi prevarrà? E perché la Federal Reserve sta pensando ad un veicolo finanziario per garantire i soldi che dovranno arrivare all’Italia dalla Bce?

Sono domande che a Londra gli gnomi della City si pongono con insistenza e che influiranno sulla futura dipendenza dell’Italia da chi avrà in mano il suo mostruoso debito. Ad interrogarsi con chi unirsi per continuare a fare il gioco delle tre carte è, in grande solitudine, ancora una volta il premier Conte che, appena rientrato dal tour europeo, fa le fusa ogni giorno ad un potentato estero diverso. Pechino, Washington, ma anche Berlino va bene. Francesco Guicciardini oggi chioserebbe: “Francia o Spagna, basta che se magna”.

Ma la misura è colma, il re è nudo e, con l’imminente tsunami sui mercati, i leader, chiusi ormai in un bunker ‘autoassolutorio’, hanno forse capito che l’unica maniera per placare il popolo italiano e i mercati internazionali sono le elezioni anticipate, con una legge proporzionale approvata in fretta e con i soliti mille parlamentari da eleggere in barba al taglio tanto sbandierato. E Mattarella, asserragliato anche lui nel suo fortino, terrorizzato dai prossimi veleni dell’”affaire Palamara”, manda tutti a votare, così riuscendo a ribadire che una crisi si può risolvere solo ridando voce agli elettori. Conte, capita l’antifona, pare che, “alle brutte”, si accontenterebbe anche di uno strapuntino alla Corte Costituzionale, in attesa di tempi migliori e visto che non riesce più a formare il suo partitino ora che tutti hanno scoperto il bluff. Chi si ferma è perduto.

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