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La sfida attorno a Repubblica è figlia di un vetero comunismo

Andrea Amata
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Il conflitto endemico alla redazione del quotidiano la Repubblica, fondato da Eugenio Scalfari ed oggi di proprietà della famiglia Agnelli-Elkann, per la repentina mutazione di linea editoriale con il ripudio della direttrice vetero comunista in funzione di un impianto di visione filo atlantica e più confacente alla galassia degli interessi del nuovo editore, è espressione della faziosità politica radicata in alcuni ambienti del giornalismo progressista. Eppure, non ci si dovrebbe scandalizzare per la metamorfosi editoriale del "glorioso" quotidiano perché da quando esiste la carta stampata le regole consuetudinarie uniformano la linea dei giornali alle indicazioni dell'editore, ovvero del proprietario. Quando De Benedetti manteneva le redini del quotidiano fondato da Scalfari non si sono organizzate forme di insubordinazione redazionale, anche se l'ingegnere non era un editore puro ed i suoi interessi diversificati si intersecavano con la dimensione del potere politico. A sinistra sono abituati ad un giornale militante che somministra ai lettori una stantia pedagogia antifascista per agitare il fantasma del dispotismo con l'avanzare delle forze alternative al loro attivismo. Il vicesegretario dei Dem Andrea Orlando si è abbandonato alla dietrologia con accuse generiche rivolte a gruppi di affari che avrebbero interesse a rovesciare il governo Conte perché allettati dalla massiva dote finanziaria per la ricostruzione post Covid. Che il governo dei mediocri possa essere vittima di una cospirazione funzionale alla loro defenestrazione sarebbe auspicabile, ma l'insinuazione di Orlando esprime il vizio antico della sinistra che dichiara l'allarme democratico ogni qualvolta avverte l'evenienza che la poltrona, su cui ha applicato sistemi di giunzione con strati gelificati di resine tenaci allo scollamento, possa essere minacciata. Se dovessimo conferire al nuovo posizionamento del gruppo editoriale una prospettiva politica, essendo Elkann un editore internazionale, questa si inserirebbe nelle tensioni fra gli Stati Uniti e la Cina. Trump ha accusato apertis verbis il Dragone cinese di aver prodotto ed esportato il virus. I tentativi di insabbiamento e depistaggio sul coronavirus, anche grazie al servilismo dell'Oms, hanno rappresentato fattori di amplificazione del fenomeno virale e messo in evidenza le negligenze di Xi Jinping. I due colossi, Usa e Cina, si contenderanno gli spazi di influenza. Ecco che attorno al polo mediatico di Elkann, con La Stampa e Repubblica, può prendere forma un movimento filoamericano con Washington a benedirne le ambizioni. La collocazione geopolitica dell'Italia va oltre la poltrona di Conte e di Orlando. FCA occupa una posizione rilevante nel mercato automobilistico statunitense, mentre la Cina vorrebbe erodere quote di mercato europee all'azienda più rappresentativa del Paese immettendo prodotti a basso costo che nella crisi economica hanno più possibilità di penetrare. Dunque, la Cina dopo aver provocato la depressione non può pensare di mettere in crisi le produzioni nazionali che impattano sulla dimensione occupazionale. La posta in gioco non sono i miliardi di euro per la ricostruzione, semmai la sopravvivenza di ciò che rimane del nostro modello industriale a cui è connessa la vita di milioni di lavoratori. In questo senso possono essere credibili le spinte mediatiche per aggregare energie in funzione di bilanciamento delle tendenze filo cinesi dei 5 stelle.

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