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Ecco la strategia di Salvini per resistere all'assalto di Zaia

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Chi contrappone il governatore veneto al leader della Lega dimentica un aspetto fondamentale: Matteo ha già cooptato tutti gli alfieri del buongoverno

Alessandro Giuli
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Il nuovo feticcio degli illusi antisovranisti si chiama Luca Zaia: a lui, secondo una narrazione strumentale, conformista e ricolma di piaggeria a doppio taglio, spetterebbe di diritto il ruolo del futuro rottamatore di Matteo Salvini. Il governatore del Veneto è oggettivamente un fuoriclasse, ma non da oggi, e sta gestendo l'emergenza pandemica nelle sue terre come un modello da seguire nel resto d'Italia. Il che risveglia gli automatismi sovietizzanti degli ex comunisti e degli analisti liberal che ogni giorno fanno da grancassa ai sondaggi sulla crescente popolarità del presidente, mentre quella di Salvini si starebbe diluendo in un cono d'ombra. Perfino Roberto Maroni indulge nella pratica e almanacca in modo ambiguo sul «futuro politico a livello nazionale» di Zaia. Ma lui si esprime dal piccolo cantuccio dell'ex segretario; e forse «parla da uomo ferito», come recita la nota canzone. Insomma per gli arcinemici della Lega, di punto in bianco, Zaia non sarebbe più il bifolco impomatato dileggiato fino a ieri ma uno statista che piace alla gente che piace. Va da sé che il governatore ha troppo sangue freddo e pelo sullo stomaco per cedere ai corteggiamenti dei sedicenti estimatori dell'ultim'ora. Cionondimeno questa meccanica ricorda da vicino una prassi già vista in passato con il meno intelligente Gianfranco Fini, il quale si ribellò a Silvio Berlusconi scodinzolando ai desiderata di un establishment che l'ha usato fino al logoramento e poi abbandonato. Il che impone una riflessione sull'inanità di una proiezione del genere in campo leghista. Molti sanno e ripetono spesso che la Lega, fin dalle origini bossiane, è un partito leninista fondato sul Führerprinzip. Pochi, tuttavia, rammentano che la sua forza storica è il buon governo degli enti locali; e sopra tutto ci si dimentica che Salvini ha perpetuato questa tradizione premiante portandosi in Parlamento un battaglione di giovani fedelissimi già testati al comando nei piani alti dei rispettivi luoghi di provenienza. Per farsene una ragione, è sufficiente scorrere i curricula degli ex ministri e sottosegretari del governo gialloverde. Bisogna poi aggiungere i pretoriani della vecchia guardia autonomista come Giancarlo Giorgetti e Raffaele Volpi – ma aggiungerei anche l'ottimo governatore lombardo Attilio Fontana – che garantiscono al capo un prezioso contrafforte di esperienza, di qualità personale e di capacità nelle relazioni con il mondo esterno che semmai andrebbe maggiormente valorizzata. Su questa solidissima struttura s'innesta la presenza di Salvini, la quale ha consentito al partito il salto di qualità e la conquista del primato nei consensi anche al di sotto del Po. Il momento d'incertezza della comunicazione salviniana, la così detta Bestia che aveva funzionato come uno schiacciasassi ai radiosi tempi del Viminale, non deve ingannare: la leadership salviniana rappresenta la sintesi perfetta di un partito nazionale sorretto dalla competenza locale e arricchito da un carisma personale invalicabile. Il fatto che tutto ciò possa non bastare per tornare a Palazzo Chigi, in definitiva, dipende essenzialmente da Salvini medesimo e dai tempi di maturazione della sua «Fase due» da leader di opposizione in cerca di rinnovata armonia con gli alleati e di più forti credenziali al di fuori e al di sopra del recinto sovranista (Washington e Bruxelles, per capirci). Ma questo è un altro poema ed è ancora da scrivere, una volta che sia stata scelta la metrica adeguata.

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