Cosa può insegnare il coronavirus
Il primo insegnamento è che, se non possiamo escludere che un governo debba decretare uno stato d'emergenza, dobbiamo però stabilire procedure e regole
Se sapremo interpretare gli avvenimenti, anche dalla tragedia del Coronavirus potranno venire insegnamenti per il nostro futuro, collettivo e individuale. Il primo insegnamento è che, se non possiamo escludere che un governo debba decretare uno stato d'emergenza, dobbiamo però stabilire procedure e regole, da rispettare tassativamente, qualora ciò comporti una violazione delle garanzie costituzionali di libertà e di democrazia. Il presidente Conte, alla Camera, ha definito i decreti amministrativi della presidenza del consiglio (DPCM) con cui sono state sospese libertà fondamentali come il diritto a muoversi, lavorare e disporre della propria vita, “uno strumento per noi tutto nuovo”. Prof. Conte, l'uso di un atto amministrativo che non ha forza di legge e ha solo il carattere di fonte normativa secondaria di norme già vigenti, per sospendere libertà costituzionali, è uno “strumento tutto nuovo” solo da quando esiste la democrazia, perché per secoli è stato lo strumento di tutti i poteri assoluti e di tutte le tirannie, che non distinguevano tra leggi e regolamenti e unica reale fonte del diritto era il potere. Lei doveva, ripeto doveva, presentare un decreto legge - non riguardante solo emergenze circoscritte ma l'intera comunità nazionale - anche di validità immediata, ma da sottoporre alla conversione del parlamento e alla firma del presidente della repubblica. Lei ha solo parlato di Unità Nazionale, ma l'ha negata nei fatti togliendo ogni ruolo al parlamento e ai partiti di opposizione. E allora, ricordando Jefferson che ammoniva “In materia di potere, smettiamola di credere alla buonafede degli uomini, ma mettiamoli in condizioni di non nuocere con le catene della costituzione” bisognerà prevedere, per il futuro, delle leggi chiare per le emergenze, con procedure certe e sanzioni per gli abusi, per evitare che l'autoritarismo statale diventi una consuetudine. Il secondo insegnamento è che non si deve mai rinunciare a ragionare anche sulle cose di successo, come il mercato mondiale e la globalizzazione. E' vero che lo sviluppo economico degli ultimi settant'anni, si è anche basato su un interscambio di dimensioni mai viste e che il sistema di regole anti protezionistiche è stato efficiente e tuttavia tale sistema ha un grave e ineliminabile difetto, la sua fragilità nelle crisi. Anche senza prendere in esame la tendenza indotta alle monocolture industriali, (di chi concentra gli investimenti dove è più forte, esporta e compra sui mercati tutto il resto) che portò al crollo il Cile di Allende quando scese il prezzo del rame o mette in crisi i paesi petroliferi quando cade il prezzo del barile, l'economia globalizzata è pericolosa, perché legata al sistema dei trasporti, alla finanziarizzazione degli scambi e all'interdipendenza della componentistica. Un paese come il Giappone, che importa più del sessanta per cento del suo fabbisogno alimentare, perché ha più convenienza a vendere automobili e comprare gli alimenti, dovrebbe lo stesso (e potrebbe, ricco com'è) elevare la sua autosufficienza almeno al 70/80 per cento del cibo, per non rischiare la fame in caso di crisi dei trasporti o del commercio, mentre l'Italia, dipendente dall'estero per la sua energia, dovrebbe sviluppare strategie e tecnologie per aumentare la sua autosufficienza. Ma v'è di più. Già prima del blocco ingiunto dal governo, alcune aziende, esaurite le scorte, stavano per fermare la produzione perché mancanti di ricambi per gli assemblaggi finali, prodotti all'estero e non più disponibili per la crisi cinese. E non parliamo poi di apparati di ventilazione e mascherine, la cui vendita ci è stata rifiutata da paesi produttori preoccupati per sé. Sarà pure sovranismo, ma un limitato e razionale aiuto alle produzioni nazionali vitali, non è un assurdo, come certi mercatisti fideistici credono, ma un liberismo razionale. Il terzo insegnamento è sulla corretta applicazione del Principio di Precauzione. Il rifiuto incomprensibile del governo a procedere, se non a screenings di massa, almeno a un'estesa campionatura per una stima, da aggiornare nel tempo, di quanti siano i portatori “sani”, ci ha impedito di valutare le quattro caratteristiche di una pandemia e cioè in primis la sua diffusione e poi le altre tre, contagiosità, morbilità e mortalità percentuale, che dalla prima dipendono per il loro calcolo con un grado accettabile di attendibilità. Si è proceduto con proclami emotivi, con la giusta celebrazione dell'abnegazione dei medici, con un retorico e troppo insistito richiamo all'obbedienza assoluta, ma, quanto a metodo, a spanne. Si sono prodotti confusamente decreti su decreti, ma spesso unità di terapia intensiva, ventilatori e tamponi erano presenti solo sulla carta. I privati e le autorità locali hanno fin qui in parte supplito e l'eccellenza dei tanti laboratori che stanno cercando una terapia ci fa bene sperare, ma il coordinamento è mancato. Il governo in realtà, senza sufficiente conoscenza del nuovo virus, ha solo applicato, in maniera abnorme, il Principio di Precauzione, ma lo ha fatto in maniera asimmetrica, non riuscendo a valutare bene i rischi del contagio, ha chiuso quasi tutto ciò che non fosse alimentare, medico-farmaceutico o sicurezza, senza tenere abbastanza in conto un crollo dell'economia. La reiterata affermazione di una scelta a favore della salute piuttosto che dell'economia, è stata demagogica e anche cinica, perché l'economia è salute e se risulterà un crollo peggiore del 1929, il numero di vittime, di vite umane perdute, potrebbe risultare incalcolabile, da noi e in altre democrazie, che, pur se con minore convinzione ed estensione, hanno finito spesso per seguire l'esempio Italiano. E il “creare moneta”, se pure è una necessità del momento, non può essere una politica continuativa, perché quella stessa moneta finirebbe per non valere niente. A solo debito non si risolve nulla, dobbiamo ripartire e al più presto possibile. Se poi abbiamo fin qui fatto bene a vietare di girare anche all'aria aperta, a parte i gravi errori di procedura e di coordinamento, lo sapremo solo quando la scienza (che ha i suoi tempi e procede per ipotesi e verifiche) avrà raccolto e compreso i dati, arrivando a una conoscenza comprovata del nuovo morbo. Un morbo che, comunque, ci insegna che il Principio di Precauzione non si può applicare con visione unilaterale, guardando solo ai rischi di una scelta e non a quelli della scelta opposta e dimenticando che esistono molti valori da tutelare, tra cui la libertà. Gli Italiani, da nord a sud, pur spaventati e tra mille difficoltà, si sono comportati, con senso civico, c'è stata qualche polemica giusta (anche tra virologi) e qualche caduta di stile, abbiamo avuto conferma di quanto sia difficile sentirsi europei (anche se continuo a credere che dobbiamo) ma, nel complesso, possiamo sentirci orgogliosi. I “furbetti” semmai stanno al governo.