l'analisi
Chi guarda il dito di Viktor Orban e non vede la luna di Giuseppe Conte
Il vero liberale e conservatore non potrebbe aderire acriticamente ad una svolta dispotica del magiaro Victor Orbàn. Pur condividendo le misure economiche di limitazione della vessazione fiscale, adottate dal governo ungherese a cui ci ispiriamo, non mi riconoscerei in provvedimenti descritti dalla stampa progressista come liberticidi. E tali sarebbero le misure che contemplassero la punibilità con pene detentive per coloro che diffondono notizie false sull'epidemia e sulle decisioni del governo. Chi ama la lettura e la scrittura, come mezzi di approfondimento e di libertà interpretativa, non potrebbe elogiare un sistema coercitivo che nega l'espressione emancipata dalla sanzione. Qualora l'arbitrio illustrato da certa stampa corrispondesse al vero non avrei dubbi nello schierarmi contro un incipiente regime, ma la nuova legge voluta dal Parlamento ungherese non sanziona genericamente le fake news. La legge rende, invece, perseguibile per il tempo di vigenza dello stato di pericolo chi diffonde dolosamente false informazioni per minare l'efficacia delle misure adottate per proteggere il pubblico dalla propagazione del virus. Dichiarare lo stato di emergenza (Coronavirus Protection Act) e codificare l'estensione dei poteri in carico al capo del governo non è un atto illiberale di per sé perché l'eccezionalità della crisi pandemica richiede un corrispettivo di risposta istituzionale fondata sulla straordinarietà. Se un governo di qualsiasi colore politico strumentalizzasse il Covid per introdurre surrettiziamente il bavaglio al pluralismo informativo non si esiterebbe a definirlo ripugnante. L'epidemia sta mietendo migliaia di vittime, in Italia abbiamo il nostro 11 settembre, triplicando i numeri funesti dell'originale, con oltre 10mila morti, in Europa il virus sta inginocchiando l'economia e stravolgendo le abitudini di vita dei cittadini, dunque un cataclisma su cui sarebbe riprovevole lucrare per ricavare un rendimento politico. Criticare la torsione dispotica di Orbàn, in riferimento all'erosione della libertà di informazione, nonostante l'infondatezza delle accuse significa elevare le fake news a sistema di comunicazione. Peraltro, le insinuazioni contro Orbàn provengono da un giornalismo ancillare a quell'eurocrazia che si sta sottraendo alla solidarietà di continente. Quella solidarietà a cui ci si appella solo per celebrare una pigra liturgia di acclamazione in funzione della conservazione di un'organizzazione iniqua in cui i pochi prosperano ai danni dei tanti. Poi come non dissociarsi dalle censure ipocrite di chi non solleva neanche un accento bisbigliato di ammonimento verso il regime cinese che reprime senza complimenti il dissenso. Victor Orbàn per il riconoscimento dello stato di pericolo, che cesserà con l'azzeramento epidemico, si è affidato ad un percorso parlamentare indicato dalla Costituzione, adempiendo ad un iter legale con l'autorizzazione del Parlamento, mentre da noi il presidente Giuseppe Conte si è limitato a renderlo edotto il Parlamento. Il nostro presidente del Consiglio ha inanellato una serie di dpcm, senza il concorso delle Camere e del Presidente della Repubblica, che hanno inibito forme di libertà sancite dalla Costituzione con l'emergenza nazionale, per giunta, che agisce come sedativo sul dissenso, perché chi lo esprime viene additato come deturpatore dell'unità nazionale. Cosicché, le riserve sull'operato di Conte vengono soffocate dalla cappa di un conformistico ripudio delle polemiche. Invece, nella vigenza delle limitazioni di fondamentali libertà, come quelle di movimento e di impresa, i diritti praticabili vanno esercitati proprio per contemperare le limitazioni che i cittadini stanno osservando con leale obbedienza. Se al lockdown fisico aggiungiamo il disciplinamento del pensiero, obbligandoci a reprimere il prodotto della mente, diventa ardito dichiararsi liberi.