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A forza di azzardi Renzi è diventato il marchese di Grillo

Anche dalle nevi del Pakistan, Renzi resta nell'occhio del ciclone della politica

Riccardo Mazzoni
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Anche dalle nevi del Pakistan, Renzi resta nell'occhio del ciclone della politica: del resto, è questo da sempre il suo habitat naturale essendo, al di là di ogni dubbio, un cavallo di razza che ha sempre in serbo una mossa del cavallo, come quando ha fatto nascere il governo Conte-Zingaretti, e ora – non sono passati neanche sei mesi – tutti si arrovellano per capire quale sarà mai la prossima. Difficile indovinarlo, anche se qualche indizio lo si può ricavare dalla lunga marcia da Rottamatore che lo portò da Palazzo Vecchio a Palazzo Chigi. In quelle dorate stanze contrasse il virus della Corona, alias sindrome di onnipotenza. I politologi si interrogano ancora sulla reale statura di una figura così controversa e divisiva. Che una volta detronizzato dal vertice del Pd fondasse un partito a sua immagine e somiglianza era scontato, e i sondaggi certificano che Renzi ormai è inviso, ben oltre i suoi demeriti, a più del 90% degli italiani. Questo non toglie che per molti anni l'attuale senatore di Scandicci abbia riscosso simpatie anche in una fetta di elettori del centrodestra. Un consenso bruciato dalle giravolte di un fuoriclasse andato troppo spesso fuori giri recitando a soggetto: da segretario del Pd passò dal sostegno a Letta alla sua sostituzione con se stesso, dall'esaltazione del patto del Nazareno alla scelta di farlo fallire, dalla promessa di lasciare la politica in caso di bocciatura referendaria al tentativo di mantenere la sua ipoteca sugli sviluppi successivi, tutto con l'unico, martellante obiettivo di tornare prima possibile a Palazzo Chigi. Errore strategico, quello di voler rimanere su piazza alla ricerca di una rivincita immediata invece di sparire per un po' dalla scena: l'Italia, si sa, è affascinata dagli uomini forti, ma per loro ha sempre pronto, dietro l'angolo, un piazzale Loreto. Ma per Renzi è impossibile cambiare narrazione: lui è il sole, gli altri i satelliti che gli girano intorno. Un marchese del Grillo, insomma, con la differenza non lieve che il nobile di Monicelli non aveva l'impiccio di dover affrontare referendum ed elezioni. Eppure, a Renzi la storia dovrà riconoscere il merito di aver messo nell'angolo la nomenklatura comunista. Un capolavoro politico rimasto però incompiuto, perché, dopo che D'Alema Bersani e compagnia se ne andarono dal Pd senza esserne cacciati, l'ex Rottamatore non smise mai di essere considerato come «il problema» (Franceschini docet). In politica come in guerra, quando si vince non si possono lasciare feriti, e invece Renzi ha rotto con la sua sinistra senza però fare il Macron, con lo scioglimento del Pd quando l'inerzia politica era tutta a suo favore, e si trovò così assediato: essendo il segretario del Pd, gli insuccessi elettorali sono stati imputati tutti a lui, e ha dovuto pagare la pretesa di fare la rivoluzione riformista col Giglio magico, senza capire che dentro il Pd l'ala «antica» non era un incidente della storia, ma una specie di malattia ereditaria e non estirpabile. Quando se ne andarono i vecchi leader ex Pci e cattocomunisti, ne rimasero troppi altri a sorvegliare il tempio contro l'usurpatore, che alla fine infatti se n'è andato anche lui favorendo però il ricompattamento della vecchia gauche nel governo giallorosso. Ma così è diventato il marchese di Grillo, il riformista-garantista al traino del carrozzone giacobino della decrescita felice, un ruolo che gli sta ovviamente stretto per cui ha deciso di tirare di nuovo i dadi del Risiko. Se porrà fine a questo governo dopo averlo inventato, renderà un servizio al Paese. Se invece continuerà solo una guerriglia estenuante aspettando Godot, taglierà definitivamente i ponti col riformismo, portando a termine la rottamazione di se stesso.

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