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Sotto la cravatta niente. Di Maio, il guaio è che s'è tenuto il ministero degli Esteri

Dopo le dimissioni da capo del M5S Luigi Di Maio resta ministro degli Esteri nel governo rossogiallo

Riccardo Mazzoni
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I commenti più perfidi sulle (mezze?) dimissioni di Di Maio da leader dei Cinque Stelle sono stati snocciolati come sempre sui social, dove la cattiveria umana trova il suo orrido habitat naturale. Il più folgorante è questo: «Non ne ha mai azzeccata una, e anche stavolta ha fatto la scelta sbagliata, perché doveva semmai dimettersi da ministro degli Esteri». Ironia graffiante, anzi spietata, con però un indubitabile fondo di verità. Ma in un tempo in cui gli slogan e le etichette contano più della sostanza politica, il gesto di togliersi la cravatta, al termine del lungo e appassionato discorso sotto le volte austere del Tempio di Adriano, ha avuto un suo indiscutibile "quid", tanto che l'applauso più fragoroso della platea ipocrita che lo acclamava è scattato proprio in quel preciso momento, quando lo scugnizzo che tra mille giravolte ha incarnato l'ala più istituzionale dei Cinque stelle si è liberato di quell'orpello simbolico per riconquistare la sua libertà di movimento nel Movimento. Del resto, la cravatta è sempre stata un simbolo ingombrante, tanto che per Leo Longanesi non portarla più è «un atto di indipendenza dai vincoli borghesi», mentre un altro aforisma recita che «la rivoluzione avrà inizio quando si bruceranno le cravatte». Di Maio se ne è liberato perché ormai la sentiva, evidentemente, come un cappio politico intorno al collo, e si è sentito perfino in dovere di farne l'esegesi, ricordando che fu Gianroberto Casaleggio a regalargli il libro "L'Elogio della cravatta", un pamphlet in cui si descrivono minuziosamente tutti i segreti delle cravatte, dei nodi, delle «follie e virtù, storia e attualità, psicologia e linguaggio». Casaleggio gli propose di approfondire anche il significato del tipo di nodo da fare, «perché anche quello è comunicazione». Poi la spettacolare, ma decisamente assurda, chiosa finale: «Per me la cravatta ha rappresentato sempre un modo per onorare la serietà delle istituzioni della Repubblica e il contegno che deve avere un uomo dello Stato, quindi nel ringraziarvi... me la tolgo». Ma come? Dimettendosi da leader grillino, Di Maio si è dimenticato dell'importante ruolo che gli rimane, ossia quello di ministro degli Esteri, un'eccellenza istituzionale dai tempi di Cavour? Probabilmente no, non è stata una dimenticanza, ma un oltraggio pavloviano alla sua prestigiosa carica. Pavloviano perché nel dna del grillismo il Movimento conta più dello Stato, anzi vi si identifica – e questo è un retaggio molto di sinistra – per cui la cravatta serviva per rappresentare al meglio il Movimento nella fase convulsa dell'approdo istituzionale, ma ora può essere accantonata nella dependance della Farnesina. Del resto, fu lo stesso Di Maio a sentenziare in un comizio, dopo il trionfo elettorale alle ultime politiche e la conquista del governo, «lo Stato siamo noi», rispolverando così questo vecchio totem delle finte democrazie che lo hanno drammaticamente sperimentato, e che ha mandato in rovina Stati e società. Ma questi, forse, sono paragoni troppo impegnativi e impropri: in definitiva, il ripudio dimaiano della cravatta è stato solo l'ultima contraddizione di un politico "naif" inventato da Grillo, che ha sempre ondeggiato tra l'aplomb istituzionale e gli incontri con i gilet gialli, o tra la richiesta di impeachment per Mattarella e il suo ringraziamento pubblico nell'ultimo discorso da leader. Resta solo da capire se questa mossa da descamisado gli servirà a fronteggiare il guerrigliero Di Battista agli Stati generali di marzo, oppure a stringere un'alleanza con lui per tornare in sella. In tutti i casi, cravatta o no, la Farnesina può attendere. 

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