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Zingaretti si è arreso a Di Maio

Franco Bechis
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Quasi tutti in queste ore stanno celebrando il funerale del M5s e di Luigi Di Maio prendendo spunto da evidenti contrasti interni, abbandoni ed espulsioni. La frana in parlamento a dire il vero non è oggi così clamorosa, perché al momento non fanno più parte del gruppo dei grillini alla Camera (compresi i due abbandoni di ieri) solo il 3,60% di chi era in quei banchi il primo giorno. Nella scorsa legislatura se ne andò dal gruppo M5s a Montecitorio il 19,20% degli eletti. In Senato oggi non fa più parte del gruppo il 9% di chi arrivò il primo giorno. Nella scorsa legislatura a palazzo Madama se ne andò via il 26,4% degli eletti. Certo, all'epoca erano all'opposizione e oggi al governo, e ogni cambio di casacca pesa naturalmente di più. Ma chi è veramente scomparso in questi mesi è il Partito democratico di Nicola Zingaretti. Non tanto perché con la scissione di Matteo Renzi ha avuto percentualmente assai più defezioni dei grillini (ma il leader di Italia Viva non ha ancora i numeri per essere decisivo sulla maggioranza di governo né in una Camera né nell'altra). E' politicamente desaparecido quel che resta del Pd, completamente soggiogato da Di Maio e dal suo Movimento cinque stelle. Non ha tutti i torti il ministro degli Esteri a rivendicare le quaranta leggi “grilline” portate a casa dall'inizio della legislatura. Un bel po' le ha concesse Matteo Salvini nella prima parte, ma in cambio lui ha potuto mettere nel suo paniere due decreti sicurezza, un anticipo di flat tax per le partite Iva, la legge sulla legittima difesa, la pace fiscale e quota 100. Zingaretti fin qui nemmeno un fico secco, e se non ci è riuscito con la manovra figurarsi se riuscirà a prendere le briciole del resto. A parole il segretario del Pd sembra un decisionista pazzesco. Solo che la sua parola vale pochino. L'ha capito il leader della Lega quando prima di mettere in crisi Giuseppe Conte aveva telefonato a Zingaretti sentendosi dire senza mezzi termini: “Io voglio andare alle elezioni!”. Infatti, è andato subito con un balzo felino al governo agguantando tutto quel che poteva. Una sola condizione: “il governo non deve essere guidato da Giuseppe Conte”. Appunto. Per approfondire leggi anche: ZINGARETTI E DI MAIO SCHERZANO INSIEME Una volta entrato nella stanza dei bottoni, cosa che non sarebbe mai avvenuta ricorrendo alle urne, ecco il primo ostacolo: bisogna votare la riforma costituzionale che taglia 345 parlamentari e a cui Zingaretti per ben tre volte aveva detto no. Ecco la scelta risoluta: “Si vota sì solo se in contemporanea facciamo una nuova legge elettorale che la renda più digeribile”. Pochi giorni dopo il Pd ha votato sì senza nessuna nuova regola del gioco, e di legge elettorale da settimane non si ciancia nemmeno più. Primo provvedimento di governo, ecco il decreto fiscale. Il M5s fa mettere dentro le manette agli evasori. Ma Zinga non ci sta: non si ragiona su queste cose con gli slogan, cambieremo la legge. E' passata esattamente come la voleva Di Maio. Ah, ma con il Pd mica si scherza, ecco il conto subito presentato: “abroghiamo i decreti sicurezza di Salvini”. Suvvia, i grillini sono così furiosi con l'ex alleato leghista...si farà in cinque minuti, no? No. Sulla immigrazione, salvo sfumature, il M5s condivideva la linea della fermezza e gli Zinga boys debbono fare buon viso a cattivo gioco: non accade nulla e i decreti oggi sono in vigore come lo erano ieri. Allora questi poverini che non riescono proprio a battere chiodo (le due o tre cosette che provano a infilare in legge di Bilancio gliele smonta subito Renzi), fanno la voce grossa sulla giustizia: “Eh, no! La fine della prescrizione così come l'avete pensata non può entrare in vigore. Dobbiamo cambiare le regole processuali, assicurare i tempi del giudizio. Non passerà”. E se lo dice Zingaretti...La prescrizione è morta dal primo gennaio 2020, con il Pd che timidamente ha sciorinato un confuso disegno di legge almeno per lasciare agli atti come avrebbero fatto loro. Pura testimonianza, perché anche qui si sono dovuti arrendere a Di Maio. Resta l'ultima linea del Piave: la revoca della concessione autostradale ai Benetton. No, eh? Qui proprio non si scherza, i ministri del Pd mica si muovono a slogan, stiamo parlando di società quotate, bisogna andare con i piedi di piombo. Già, sarà il piombo che fa sempre affondare i fedelissimi di Zingaretti? Il no assoluto è diventato nì, poi forse, ora “ma certo che i Benetton a ben guardare...”. Un paio di settimane - c'è da scommetterci - il primo sì alla revoca sarà quello del Pd. Di cui non si trova più traccia in politica, sbranato e divorato da quei grillini di cui si celebra un po' frettolosamente il funerale...

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