Caos a 5 Stelle, nessuno tocchi Paragone
Se il M5s cacciasse Gianluigi Paragone rinuncerebbe definitivamente alla sua ragione fondante
Con il processo domestico intentato a Gianluigi Paragone, il MoVimento 5 stelle rischia di ufficializzare il proprio declassamento a costola della sinistra di establishment. Un errore blu e al tempo stesso un punto di non ritorno assai preoccupante. Il deferimento ai probiviri, per il senatore e giornalista «reo» di non aver votato la legge di bilancio peggiore che si ricordi, vale come una medaglia alla sua giovane carriera e pone all'attenzione pubblica un tema fondamentale per capire se e come i grillini intendono procedere nella loro ultima metamorfosi. Paragone ha buon gioco nel sostenere che lui è rimasto fedele ai princìpi fondativi del MoVimento, ivi compresa quella ragionevole dose di euroscetticismo rivolta nei confronti di una tecnocrazia affaristica che ha generato povertà e conflitti sociali. In poche parole: la posizione in virtù della quale i Cinque stelle sono divenuti la prima forza nazionale alle elezioni del 2018. Beppe Grillo e Davide Casaleggio, più ancora dell'amletico Luigi Di Maio, dovrebbero ricordarsene e tenere a mente queste parole di Paragone: «A me interessa una cosa: il M5s era diventato una membrana contenitiva di una voglia di riscatto, se tu in un anno e mezzo perdi tutti questi voti è perché hai tradito un sogno. Il MoVimento non può pensare di diventare tutto a un tratto un soggetto bello, fighetto». Ovviamente non è in questione, o per lo meno non lo è in via prioritaria, il ribaltone estivo anti sovranista che ha generato la nuova maggioranza giallorossa. La politica è materiata di senso cinico e di realismo: fu Matteo Salvini a imbracciare l'arma della crisi ed era logico che Di Maio - sia pure riluttante - reagisse con un eccesso di legittima difesa. Tutto questo Paragone lo sa e lo ripete fin dapprincipio: non intende approdare sui lidi salviniani quanto presidiare il luogo naturale sul quale si è radicata ed è poi fiorita l'identità grillina. La scommessa doveva essere quella di lavorare per attrarre il Partito democratico sui temi cardine del MoVimento, a cominciare dal progetto di rigenerare l'Europa avvicinandola alle istanze dei popoli sovrani e dei cittadini svantaggiati in cerca di protezione. Ciò non sta accadendo e Paragone non ha fatto altro che segnalarlo con una composta e civile dissidenza. Se il senatore sotto processo dovesse essere infine cacciato, come pare si augurino alcuni poco lungimiranti suoi colleghi, cadrebbe in un colpo solo la residua speranza che il MoVimento possa fungere da «ago della bilancia» nel riassestamento istituzionale e politico di un'Italia uscita a fatica, e non poco ammaccata, dall'illusione nazionalpopulista gialloverde. Di Maio ha di fronte a sé una scelta gravida di conseguenze: mantenere una posizione di terzietà tra destra e sinistra, ancorando il rilancio del MoVimento al superamento del vecchio bipolarismo che ha prodotto tra l'altro il commissariamento della democrazia parlamentare sotto forma di governo tecnico (memento Monti…), oppure rassegnarsi a un ruolo di subalternità residuale all'egemonia eurolatrica rappresentata dal Pd. Lo stato d'eccezione personificato dal primo governo Conte fu appunto un tentativo di recuperare, almeno provvisoriamente, quegli strumenti di autodeterminazione politica necessari allo spazio vitale di uno Stato sovrano. Il fatto che l'esperimento gialloverde sia fallito non pare una buona ragione per sacrificare gli ultimi lacerti d'indipendenza culturale del MoVimento. Quella di Paragone è una voce critica che va ascoltata, non repressa o peggio ancora espulsa come fosse l'ombra della propria cattiva coscienza.