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Maggioritario, perché il destino del referendum non è segnato

Davide De Lungo*
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In questi giorni, l'attenzione è tornata a concentrarsi su un tema classico del dibattito politico italiano: il dubbio amletico della scelta fra maggioritario e proporzionale. Come è naturale, all'ordine del giorno campeggia la proposta avanzata dal leader della Lega Salvini di introdurre un sistema elettorale integralmente maggioritario, ritagliando ad hoc la legge elettorale vigente tramite referendum abrogativo. Il problema che si è posto, però, è questo: un tale referendum sarebbe dichiarato ammissibile dalla Corte costituzionale? Più in particolare: i quesiti rispetterebbero i rigidi paletti imposti dalla giurisprudenza della Consulta, che pretende (fra l'altro) l'autoapplicabilità della normativa di risulta, e cioè l'idoneità della disciplina che residua all'esito dell'abrogazione referendaria di assicurare, fin da subito e in ogni momento, di andare alle elezioni per il rinnovo delle Camere? La principale obiezione mossa contro il buon esito dell'operazione referendaria è che la normativa di risulta non sarebbe autoapplicativa, perché manca la ripartizione del territorio in collegi maggioritari. Analizzando i precedenti della Corte, parrebbe infatti che ai fini dell'autoapplicabilità della normativa di risulta, e dunque dell'ammissibilità del referendum, i collegi debbano essere già disegnati e pronti. In questo senso sono le sentenze nn. 5 del 1995 e 26 del 1997, rese in vicende molto simili all'attuale, in cui, tramite referendum, si voleva eliminare la quota di seggi attribuiti con metodo proporzionale, così da lasciar operare il maggioritario per la composizione dell'intero arco parlamentare. Le pronunce fanno discendere l'inammissibilità proprio dal fatto che, da un lato, i collegi esistenti non sarebbero stati utilizzabili così come erano; e che, dall'altro lato, non sarebbe stata sufficiente l'attività di aggiornamento della commissione istruttoria, risultando necessaria “l'approvazione di una legge, ovvero […] un decreto legislativo emanato dal Governo sulla base di una nuova legge di delegazione” (così la sentenza del 1995, riecheggiata in termini pressoché identici da quella del 1997). Oggi come allora, la normativa elettorale residua non potrebbe contare su collegi già pronti; anche perché – come insegna la stessa Corte – neppure potrebbe invocarsi “suppletivamente” la reviviscenza di norme preesistenti, o l'ultrattività di quelle abrogate. Il destino segnato, quindi, è quello dell'inammissibilità del referendum? La soluzione, a ben guardare, non è forse del tutto scontata, e si potrebbe giungere a un esito diverso, là dove si rintracciasse nell'ordinamento un obbligo giuridico puntuale e specifico per il legislatore di procedere al ridisegno dei collegi, in modo da consentire l'operatività della normativa di risulta. In questa prospettiva, esistono due strade da percorrere, benché entrambe piuttosto in salita. La prima strada può immaginarsi se, riprendendo il passaggio citato della pronuncia del 1995, lo si interpreti nel senso che, ai fini dell'autoapplicabilità, può essere sufficiente che esista una delega al Governo "aperta" per la ridefinizione dei collegi; cioè, una delega non scaduta, e vincolata a principi e criteri direttivi compatibili con la nuova formula elettorale. Nelle prime bozze dei quesiti diffuse, si prova a sfruttare a tale scopo la delega contenuta nell'art. 3 della legge n. 51 del 2019, eliminando da essa la condizione della previa approvazione della riforma costituzionale sul numero dei parlamentari: ciò al fine di ottenere una delega svincolata dall'avverarsi di questo non facile passaggio procedurale. La delega "ritagliata", che residuerebbe all'esito dell'abrogazione referendaria, sembra però costituzionalmente illegittima, perché verrebbe a mancare un elemento essenziale imposto dall'art. 76 Cost., ossia la fissazione del termine entro il quale il Governo deve esercitare la delega. Sparendo, infatti, il riferimento all'approvazione della riforma costituzionale, sparisce ogni determinazione o aggancio temporale sicuro per circoscrivere cronologicamente la potestà del legislatore delegato.   Ma c'è un ulteriore criticità. Quand'anche la delega residua fosse costituzionalmente legittima, e si ritenessero superabili tutti i problemi di cui sopra, comunque ciò potrebbe non bastare. Il motivo è questo: per consolidata giurisprudenza costituzionale, l'esercizio della delega è facoltativo, non obbligatorio per il Governo, che può discrezionalmente scegliere di non sfruttarla, e lasciarla scadere. Quindi, pur dove ci fosse una delega aperta, l'autoapplicabilità della normativa elettorale che è fondamentale per la Corte non sarebbe affatto garantita, proprio perché la delega per il ridisegno dei collegi è a esercizio facoltativo, e non obbligatorio. La stessa Corte nella sentenza n. 26 ha escluso che esista un qualunque obbligo di leale collaborazione del Parlamento (e a maggior ragione del Governo) per dar seguito o completare la deliberazione popolare. L'unico contro-argomento che, a questo punto, si potrebbe far valere, è che la legge elettorale è una legge costituzionalmente necessaria: una legge, cioè, che in base alla Costituzione non può non esistere ed essere pienamente funzionante; se così è, allora, può ritenersi che sul legislatore parlamentare, o sul legislatore delegato, gravi un vero e proprio obbligo di provvedere di matrice costituzionale, a completare e rendere operativa la normativa elettorale. La seconda strada che – nella medesima logica - può percorrersi è quella di far leva su quanto dispone l'art. 3, comma 6, della legge n. 165 del 2017. La disposizione, nella versione vigente, recita: "il Governo aggiorna con cadenza triennale la composizione della commissione nominata ai sensi del comma 3. La commissione, in relazione alle risultanze del censimento generale della popolazione, formula indicazioni per la revisione dei collegi uninominali e dei collegi plurinominali, secondo i criteri di cui al presente articolo, e ne riferisce al Governo. Per la revisione dei collegi uninominali e dei collegi plurinominali il Governo presenta un disegno di legge alle Camere".  Eliminando, tramite apposito ritaglio referendario, i primi due periodi, oppure anche solo il congegno della revisione triennale, e in ogni caso i riferimenti ai collegi plurinominali, la disposizione residua sancirebbe un obbligo giuridico per il Governo di provvedere, rafforzato dal carattere costituzionalmente obbligatorio della normativa elettorale, legittimamente senza termine perché si tratta di un disegno di legge e non di una delega, non più correlato alla scansione triennale della revisione delle commissioni.  *Professore a contratto di Diritto Pubblico, Università San Raffaele

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