dibattito sul cav
Un gigante senza eredità. In scena il processo a Silvio
L’importante è non farlo troppo ad alta voce. Perché se Silvio Berlusconi se ne accorgesse, lui che con la candidatura alle Europee vuole tentare l’ennesimo miracolo politico, non sarebbe certo contento di sapere che a pochi passi dal Parlamento c’è chi è intento a tracciare un bilancio del suo lascito. A celebrarne una sorta di processo storico. Eppure va proprio così, e l’occasione è data dalla presentazione del libro di Fabrizio Cicchitto «Storia di Forza Italia 1994-2018». A interrogarsi sull’enigma Berlusconi, oltre allo stesso Cicchitto, ci sono alcuni dei più autorevoli giornalisti che ne hanno seguito da vicino le alterne fortune politiche, dal direttore de “Il Tempo” Franco Bechis a Paolo Guzzanti, da Augusto Minzolini ad Alessandro De Angelis. E alla fine il quadro che ne viene fuori è inevitabilmente contrastato. Lo storico e politico Piero Craveri invita a guardare con indulgenza all’esperienza di governo del Cavaliere, «anche perché - sottolinea - ha avuto la sfortuna di governare sempre in momenti di crisi. Nel 2001 con l’attacco alle Torri Gemelle e nel 2008 con la crisi mondiale della Finanza». «Tutto sommato - aggiunge Craveri - è stato perlomeno il tutore di una continuità della nostra identità. Mentre oggi gli italiani non sanno più cosa sono». Ed è su questo aspetto che si infiamma in dibattito: Berlusconi è stato l’ultimo esponente del vecchio sistema o il primo del nuovo? Di questa seconda opinione è, ad esempio, Claudio Petruccioli: «I 25 anni di Forza Italia sono stati un terremoto perenne, altro che stabilità». E Franco Bechis affonda il coltello proprio in questo aspetto: «Berlusconi - spiega - è stato un Salvini prima di Salvini e meglio di Salvini. Uno che sentiva davvero la pancia del Paese». E allora perché a un certo punto ha perso il tocco magico? «Un po’ per l’inevitabile passare del tempo - dice Bechis - un po’ a causa del "partito Fininvest". Ma non come lo intende Cicchitto, ovvero come la tv commerciale che, soffiando sul fuoco del populismo, ha favorito l’affermarsi dapprima del giustizialismo e poi del populismo. Ma come l’insieme di quei dirigenti che hanno spinto Berlusconi a "istituzionalizzarsi" perdendo la sua originaria carica rivoluzionaria». Se De Angelis dell’Huffington Post si mostra inflessibile nel giudizio («la cifra di questo ciclo politico è stato il conflitto d’interessi. Berlusconi legiferava a seconda delle sue necessità economiche e giudiziarie»), Mario Sechi riporta il discorso al presente: «Cosa resta di Berlusconi? Assolutamente nulla. Oggi non c’è più lo straccio di un partito moderato o liberale. E gli italiani, in ogni caso, non sarebbero interessati all’articolo. Sono ancora fedelissimi ai populisti al governo, nonostante il quadro economico drammatico». La colpa maggiore di Berlusconi, quindi, resterebbe quella di non aver creato né successori né un vero partito che non fosse basato sulla sua immagine. «Ma un partito "normale" avrebbe avuto quello stesso successo?» si chiede Minzolini nelle retrovie. È uno dei dilemmi che inevitabilmente resteranno senza risposta.