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Vertice-fiume sull'alta velocità. La Ue avverte: "800 milioni a rischio"

A Palazzo Chigi il premier Conte media tra Di Maio e Salvini

Carlo Antini
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Il treno della Tav si fermerà nella notte di Palazzo Chigi? Il vertice convocato dal capo di governo, Giuseppe Conte, è proseguito a lungo, per decidere se dire sì o no all'Alta Velocità Torino-Lione. All'interno del Governo, le posizioni sembrano inconciliabili: la Lega vuole la realizzazione, il Movimento 5 Stelle chiede lo stop dell'opera. E, come dice serafico il capo del Carroccio Matteo Salvini, «il forse non c'è»: bisogna uscire con una risposta secca. Conte, rientrato da una breve visita a Belgrado, spera di poter chiudere nelle prossime ore, ma si dice pronto a procedere «ad oltranza», sino alla scadenza che ha fissato per venerdì. All'inizio della settimana prossima, infatti, bisogna pubblicare i bandi Telt necessari a far avanzare l'opera e ricevere i finanziamenti europei. Dalla Francia si fa sentire il Comité Transalpine per il Sì, mentre a Bruxelles i funzionari Ue avrebbero già preparato una lettera che ricorda i freddi numeri: la perdita complessiva, nel caso di blocco dell'opera, sarebbe di circa 800 milioni, di cui 300 già a marzo. In queste ore di fuoco, Conte ascolta a turno i vicepremier Di Maio e Salvini, accanto al ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, che ha smentito in modo categorico di aver pensato di dimettersi. Al tavolo siedono anche il sottosegretario leghista Armando Siri e i tecnici che hanno seguito il dossier. Salvini, entrando al vertice, spiega di aver convocato esperti e tecnici che gli hanno confermato che l'Alta Velocità «costa di più non farla, che farla». Bisogna quindi procedere, anche perché «il treno è più sicuro, costa meno e inquina meno: su questo non c'è nessuno che mi possa far cambiare idea». Il problema è che anche nel Movimento 5 Stelle restano arroccati sulle proprie posizioni. «Se c'è uno studio che dice che l'opera non sta in piedi un buon padre di famiglia non spenderebbe mai queste cifre», sottolinea Di Maio. A vertice in corso, davanti a Palazzo Chigi viene intercettato dai cronisti il deputato pentastellato Luca Carabetta, piemontese e inamovibile: le sue parole d'ordine sono No Tav e ridiscussione del trattato Italia-Francia con successivo passaggio parlamentare. Nelle retrovie, i due partiti fanno filtrare aperture ed ipotesi di lavoro per un possibile compromessi. I pentastellati (o una loro parte) potrebbero accettare il via libera ai bandi rivedendo l'intero progetto, rafforzando la vecchia linea del Frejus. Dal Carroccio replicano a muso duro: ribadiscono il loro sì al treno veloce, dicendosi «disponibili a modifiche del progetto purché non sia tradito lo spirito iniziale». Un'ipotesi circolata a vertice in corso prevede di rifare il traforo ferroviario del Frejus, con una nuova galleria di 15 chilometri, al posto del maxi-tunnel da 57,5 chilometri previsto nel progetto attuale. Così si spenderebbe di meno. Ma l'idea viene bocciata senza appello dal presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, secondo cui si tratta di «una carnevalata». Una via d'uscita, su cui ambo le parti sembrano potersi accordare, sono la via parlamentare o la consultazione dei cittadini, tramite referendum. Il premier Conte, da parte sua, non si sbilancia, cercando la strada che lo farà uscire dal tunnel. E rassicurando che, in ogni caso, «il Governo non cadrà».

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