dal festival a via nazionale
Ma le regole non sono solo canzonette
Sembrerebbero le due cose più lontane del mondo, eppure la vittoria del festival di Sanremo 2019 e la nomina del vicedirettore della Banca di Italia hanno molto in comune. E non solo perché entrambe le scelte sono contestate. In comune hanno soprattutto un uso strumentale delle regole, che sono bandiere sventolate con grandissima ipocrisia. Diventano secondarie se le piega a proprio favore chi appartiene alle élite benpensanti depositarie del senso del bene e del male. Sono invece icone sacre e inviolabili quando le stesse cose prova a farle o dirle chi a quelle élite non appartiene. In un caso stiamo parlando solo di canzonette, nell’altro di un argomento più serio (anche se assai meno di qualche anno fa). A Sanremo si è fatto votare a pagamento il popolo, che ha scelto le sue canzonette, bocciando fra le tante quella di un ragazzo italo-egiziano, tale Mahmood. Poi si sono messe in piedi due giurie di ottimati, gente che dal primo giorno ha pensato che la vittoria di quel cantante nato in Italia da immigrati potesse essere uno schiaffo straordinario a Matteo Salvini e ai suoi slogan. Non è una illazione: questo era contenuto nei giudizi dei critici dei giornali (gli stessi che formano la giuria di qualità della stampa) e più volte ripetuto dalla maggiore parte dell’altra giuria speciale, composta da volti noti della televisione come Serena Dandini e Beppe Severgnini. C’è qualche polemica sulla regolarità del voto, perché sono assai diverse le percentuali del voto fornite in diretta sui teleschermi Rai al momento della proclamazione della vittoria e quelle fissate il giorno dopo, con una correzione superiore al 30% utile a fare tornare la matematica che altrimenti non ci azzeccava proprio nulla. Allora se si è già scelto chi deve «politicamente» vincere (questo era chiaro nelle scelte delle giurie professionali dal primo giorno), non si comprende perché poi procedere a spillare soldi ai teleutenti per farli votare stravolgendo alla fine le loro scelte. Ma appunto, debbono avere sempre ragione le élite, che tanto piegano le regole a quel che più desiderano. Nel caso di Banca di Italia le parti si invertono. Qui sarebbero i puzzoni scelti dal popolo (i Salvini e i Di Maio) a piegare regole sacre e inviolabili mettendo a rischio addirittura la sacra «autonomia» di via Nazionale che per altro nei decenni è stata piegata più volte e quasi spezzata senza che nessuno ne avesse scandalo. I due puzzoni hanno infatti detto con una certa chiarezza di volere un segno di discontinuità nella gestione della banca centrale e di non essere disposti a dare il proprio ok a un mandato bis per uno dei vicedirettori della Banca d’Italia, Luigi Federico Signorini. Scandalo, le mani su Bankitalia, la prepotenza della politica, l’attentato all’autonomia, e così via. Abbiamo letto in un articolo di Eugenio Scalfari perfino uno sfogo preoccupato di questo da parte del Governatore della Banca di Italia, Ignazio Visco. Letto sì, ma con una certa sorpresa, perché se in passato non ci fossero state non solo le mani, ma pure vere e proprie risse politiche sulla nomina del direttorio della banca centrale, lo stesso Visco non sarebbe in quel posto. Furono gli scontri politici (e in particolare la tigna di Giulio Tremonti) infatti a sbarrare la strada durante l’ultimo governo di Silvio Berlusconi alla nomina del successore naturale di Mario Draghi in Bankitalia, che era l’allora direttore generale Filippo Saccomanni. Visco che era solo vicedirettore lo bypassò perché sul suo nome si trovò un compromesso squisitamente politico all’interno della maggioranza di governo, e Saccomanni non la prese benissimo. Molti anni prima era accaduta la stessa identica cosa, anche lì in barba alla presunta autonomia della banca centrale e comunque alla prassi che si era seguita fin dalla sua nascita. Eravamo nel 1993, il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi fu chiamato a palazzo Chigi e il suo posto avrebbe dovuto prenderlo il direttore generale dell’epoca, Lamberto Dini. Ma la politica e il governo dissero di no, così una prassi ininiterrotta che aveva alle spalle Bonaldo Stringher, Vincenzo Azzolini, Donato Menichella, Guido Carli, Paolo Baffi e lo stesso Ciampi andò a farsi benedire. E governatore per compromesso politico dell’epoca diventò l’allora vicedirettore generale della banca, Antonio Fazio. Si scandalizzò qualcuno? Sì, gli amici di Dini. Ma siccome la violazione delle regole andava bene alle élite dell’epoca che non volevano Dini, ecco serafico l’uomo più potente di Italia allora, l’avvocato Gianni Agnelli commentare: «Il governo ha sempre avuto un ruolo nelle nomine ai vertici della Banca d’Italia...». Nessuna autonomia della banca centrale, sacro l’intervento del governo a patto però di realizzare quello che andava bene ai potenti dell’epoca. Allora chissenefrega delle regole. Da allora ad oggi questo intervento della politica e dei poteri esterni a via Nazionale nella nomina di governatori, direttori generali e membri del direttorio della banca centrale si è ripetuto decine di volte. Magari i Salvini e i Di Maio dicono quel che pensano in pubblico, e sembrano per questo più rozzi. Gli altri dicevano le stesse cose in privato, ma la sostanza è la stessa. Per altro né allora né oggi questo contrasto è illegittimo in alcun modo. Perché le regole di scelta dei membri del direttorio di via Nazionale non prevedono alcuna autonomia e coinvolgono più soggetti: il Governatore, il consiglio superiore, il consiglio dei ministri e il presidente della Repubblica. Se qualcuno di quei soggetti esprime la sua ha quindi il diritto di farlo. Come è indubbio che la scelta primariamente spetti al Governatore, visto che da lì parte e l’oggetto è la nomina di uno dei suoi più stretti collaboratori. Non sarebbe stato scandaloso partire da lì e cercare una intesa prima di buttare sul piatto un nome da prendere o lasciare.