l'altra guerra
Disobbedir parlando, il Capo che non ascolta il Viminale
Vi è un motto famosissimo che appartiene alla tradizione dell’Arma dei Carabinieri, riferito alla propria qualità della Benemerita: “usi obbedir tacendo e tacendo morir”. Sommo esempio di virtù militari e civili per cui l’Italia tanto deve a questa credibilissima istituzione. Ma proviamo ad entrare all’interno del linguaggio: obbedir a chi? È evidente che la funzione precipua delle forze armate è quella di garantire la sicurezza e la sovranità dello stato per servire il bene dei cittadini e del popolo sovrano, che rappresenta il termine ultimo di riferimento di ogni azione pubblica. Per esempio quella nel cui nome, come recita la costituzione, viene esercitata quella giustizia che si presuppone uguale per tutti. Nella fattispecie delle forze armate tale riferimento è innanzitutto il governo legittimo in carica e il parlamento repubblicano sovrano che assume per esempio in stato di guerra la configurazione del Consiglio Superiore di Difesa composto dai ministri competenti e presieduto dal presidente della Repubblica eletto dalle camere sovrane. Questo ci dice la legge e la costituzione. Non si da quindi che un comandante militare possa interpretare sulla base della propria libera coscienza, per quanto umanistica e filantropica, gli ordini che gli vengono impartiti dall’autorità legittima salvo cadere in reati di insubordinazione e di fellonia. Per altri tipi di pubbliche funzioni è prevista per esempio l’obiezione di coscienza., quella che garantisce ai medici anti abortisti nell’attività ospedaliera di essere esentati dalle interruzioni di gravidanza previste da una legge dello Stato. Ma non si da per esempio che un militare divenuto pacifista non violento possa essere esentato dai servizi armati salvo chiedere di essere ridotto ad un servizio civile ed amministrativo. Quando l’ammiraglio Pettorino, nominato dal governo Genitloni un mese prima delle elezioni con una fantastica tempestività al comando della Guardia Costiera e delle capitanerie di porto, ha gloriosamente proclamato nel mese di luglio di fronte alle autorità governative che per lui l’eterna legge del marinaio è di salvare nelle acque del pelago qualunque vita umana a prescindere dagli ordini ricevuti, ha compiuto una affermazione sorprendente sia per le leggi militari e per i codici internazionali assolutamente inedita. Che tale dichiarazione d’intenti meritevole, secondo me, dell’attenzione dei suoi superiori e della magistratura militare fosse vestita dalla dotta citazione di un comandante della seconda guerra mondiale che dopo aver affondato una nave belga ne avrebbe salvato parte dell’equipaggio poco importa. Intanto trattavasi in quel caso di una applicazione di un codice di guerra ben noto agli esperti mentre l’ammiraglio Pettorino rivendica il diritto-dovere di accorrere in soccorso al di là di ogni ordine ricevuto di chiunque si trovi in difficoltà in acque, non importa di quale giurisdizione o natura o in quale spazi nazionali perché tale imperativo rappresenterebbe per lui una sorta di legge kantiana assoluta. Non solo: ma che la volontà del salvato di essere tradotto dove egli desideri prevalga su ogni altra considerazione giuridica e di opportunità. Supponiamo per esempio che uno di quei migranti che staziona sulle scogliere di Ventimiglia decida con un materassino di prendere il largo e di chiamare con un telefonino la guardia costiera e il suo desiderio sarà quello di essere tradotto sulle coste francesi: nulla dovrebbe potere ostacolare il suo disegno. Salvo forse chiedere che cosa potrebbero pensarne le autorità marittime francesi. Al di là di queste paradossali sottigliezze esiste la costatazione di una sorprendente contemporaneità tra movimenti degli scafisti ricerche di sos con telefoni satellitari, qualcuno ben brandito se ricordo anche da un celeberrimo prete eritreo, e operazioni di salvataggio della Diciotti o similari in acque mediterranee lontane decine di miglia dalle coste patrie. Mi chiedo se le competenze umanitarie dell’ammiraglio ischitano Pettorino potrebbero spingersi fino alle coste del Kerala attualmente flagellate da tragiche alluvioni che meriterebbero salvataggi di migliaia di esseri umani o delle coste siriane reduci da guerre recenti. Ma al di là di queste considerazioni pur non irrilevanti per un militare alla cui responsabilità vengono affidati uomini e risorse dell’Erario, occorrerebbe ricordare che Guardia Costiera e capitanerie di porto sono un organo di polizia istituzionalmente destinato alla protezione delle coste nazionali e del demanio marittimo piuttosto che a grandi navigazioni d’altura per missioni di pace o di guerra, per missioni umanitarie piuttosto che ricerche oceanografiche o azioni di forte significato comunicativo e geopolitico. Le prodezze della Diciotti sulle coste maltesi andrebbero lette attentamente dai superiori dell’ammiraglio Pettornino nei dettagli e dialoghi a mio modo di vedere imbarazzanti tra autorità maltesi, scafisti e guardia costiera italiana posta a guardia delle coste maltesi piuttosto che di quelle italiche, così come pure l’attitudine a competere con le, io credo famigerate, ong migrazioniste nella tempestività a precedere la sovrana guardia costiera libica nell’esecuzione delle sue funzioni d’istituto, soprattutto nella arbitraria interpretazione della presunta insicurezza delle coste libiche sulle quali peraltro operano militari italiani a Misurata e innumerevole personale delle Nazioni Unite che a questo punto non si capisce che cosa ci starebbero a fare su coste così insicure per ricondurvi i presunti “naufraghi”. Comprendo gli entusiasmi umanitari e i protagonismi socio-politici. Ma tutto questo non si attaglia ai militari che hanno nella storia e nel buon senso altre funzioni. Quello per esempio di proteggere lo stato e un popolo da tutte le aggressioni esterne. Ed è fuor di dubbio, illustre ammiraglio Pettorino che una gigantesca operazione di sbarco, ben finanziata ed orchestrata, che ha portato nella nostra penisola, gettata ponte da Domine Iddio tra l’Europa e l’Africa, più di mezzo milione di individui ai quali solo per il 5% è stato riconosciuto lo status di rifugiati la più incredibile invasione marittima dai tempi dello sbarco in Normandia. Di fronte a questa drammatica prova è nato un colossale affare che ha mosso interessi mafiosi in Africa, organizzazioni criminali come la mafia nigeriana con la sua droga, la sua prostituzione e i suoi omicidi, terroristi islamici e foreign fighters oltre ad un peloso business di carità rischiose che ha arricchito di un paio di miliardi di euro, negli anni, cooperative di incerto pedigree, secondo il giudice Gratteri che ha esplicitamente dichiarato che attraverso la migrazione la ‘ndrangheta si è arricchita ma anche ineffabili caritas diocesane per circa un miliardo di euro e parroci che hanno riempito contemporaneamente portafogli e solitudini sentimentali. Insomma una gigantesca business-invasione di fronte alla quale un militare con funzione di polizia marittima dovrebbe guardare, io credo, con ben altro senso critico e responsabilità. Una riflessione per i superiori dell’ammiraglio Pettorino che riguarda la storia: un bellissimo libro di uno storico, già vicedirettore di Repubblica, Giani Rocca, intitolato: “Fucilate gli ammiragli”. Parla della controversa consegna del naviglio militare italiano a Malta, alla flotta inglese nell’inquietante passaggio storico tra Cassibile e l’8 settembre. Non entreremo in quella dolorosa querelle storica. Ma vorremo ricordare all’ammiraglio Pettorino e ai comandanti di tutte le forze armate che la parola patria e quelle sovranità nazionale oltre che legalità e diritto dovrebbero apparire gloriose e non imbarazzanti a chi porta le stellette. Quanto poi al doloroso computo delle vite salvate o perdute, difficile in ogni guerra se questa in qualche modo lo è, occorrerebbe mettere a confronto il numero di migranti raccolti con quello di quelli annegati nell’irresponsabile illusione che il traghettamento già prepagato, come ben si sa, fosse facile e scontato per tutti. E ciò appare ancora più evidente in una realtà in cui i sociologi africani ci parlano di decine di milioni di giovani africani desiderosi più che di contribuire alla crescita economica e sociale dei loro paesi, di tentare la sorte per godere del solidissimo welfare che gli italiani hanno creato al prezzo del sacrificio di generazioni di lavoratori. Se poi gli ordini che vengono dai legittimi rappresentanti dello stato italiano la cui costituzione incontrovertibilmente proclama che “la difesa dei confini della patria è un sacro dovere del cittadino” dovesse apparire discutibile all’ammiraglio Pettorino e alla Guardia Costiera, esiste sempre la possibilità di passare a mettere le proprie arti marinare al servizio di qualche ben retribuita e sorosiana ong. Perché per un militare esiste un confine sottile tra l’ambivalenza morale e l’alto tradimento. Oppure, se mi è consentita una battuta, proporsi ad uno stato sovrano, che so Città del Vaticano, per la costituzione di una flotta marittima umanitaria che a questo punto però dovrebbe sbarcare il suo carico, magari risalito il Tevere, al di là delle mura leonine e del colonnato di San Pietro.