rebus governo
Di Maio lancia l'ultimatum: "Col Pd oppure al voto"
Luigi Di Maio chiude la porta a Matteo Salvini e apre il confronto con il Pd. Che, a sua volta, vuole andare a vedere le carte dei 5 stelle, ma rischia di spaccarsi, con i renziani già pronti allo scontro. Nel centrodestra, Silvio Berlusconi ignora il leader pentastellato («a Di Maio non voglio dire niente»), mentre Salvini stacca la spina per alcuni giorni - un giorno e mezzo di relax con la fidanzata - ma non taglia l’ultimo filo che lo lega a Di Maio, al quale rivolge sì parole tranchant («amoreggia con il Pd pur di andare al potere»), ma invia anche un ultimo segnale: «Se vuole smettere di polemizzare e aiutarmi a ricostruire questo Paese io, come leader del centrodestra, sono pronto». L’esplorazione del presidente della Camera, Roberto Fico, dà i primi frutti (e un secondo giro potrebbe svolgersi giovedì, prima di tornare al Colle a riferire): Pd e M5s si dicono disponibili a sedersi al tavolo e aprire un confronto sui programmi. Ma i dem pongono una precondizione imprescinidibile: Di Maio deve chiudere «solennemente» il forno con la Lega, scandisce il segretario reggente Maurizio Martina dopo il colloquio con Fico. La risposta pentastellata non si fa attendere: «Per me qualsiasi discorso con la Lega si chiude qui», sentenzia Dio Maio. Ma al Pd serve tempo, Martina lo spiega chiaramente dopo le consultazioni: «disponibili al dialogo» ma vanno coinvolti gli «organi dirigenti e la Direzione» (che dovrebbe riunirsi la prossima settimana). E il leader pentastellato non mette fretta ai dem, consapevole che la partita interna al Pd sarà tutta in salita. Subito dopo le parole concilianti del segretario, infatti, parte l’offensiva renziana, che sbarca anche sui social al grido di «senza di me». L’altro paletto posto da Martina è il programma del Pd: si parte da lì, sottolinea il segretario reggente. E Di Maio non chiude: «parta il confronto, sui temi ci siamo». Insomma, prove tecniche di dialogo, con Di Maio che dice di «apprezzare» le parole di Martina, ma allo stesso tempo avverte: «Se fallisce questo percorso per noi si deve tornare al voto, non sosterremo nessun altro governo, tecnico, di scopo o del presidente», scandisce. Per il momento il nodo vero, quello della premiership, non viene affrontato, ma per i 5 stelle la linea non cambia: a palazzo Chigi deve andare Di Maio. Stesso identico nodo che, del resto, ha impedito e poi fatto naufragare l’accordo con Salvini che, parlando a caldo con i suoi, non mostra sorpresa per i passi di avvicinamento tra dem e 5 stelle: «Ora però li voglio vedere alla prova dei fatti», è il ragionamento. E se anche alla fine dovessero raggiungere l’accordo per formare un governo, il leader leghista - si ragiona - non si straccerebbe le vesti. Anzi, stando all’opposizione avrebbe tempo e praterie vaste per proseguire la scalata alla leadership del centrodestra, catalizzando consensi. Salvini si è sempre detto contrario a un governo del presidente o di larghe intese (linea per ora condivisa con Di Maio) preferendo l’opzione del ritorno al voto. Ma certo in quel caso a farne le spese potrebbe essere la tenuta della coalizione di centrodestra, perchè il timore dei leghisti è che Silvio Berlusconi non si tirerebbe indietro. Del resto, fanno osservare fonti azzurre, il Cavaliere non ha mai demonizzato l’opzione governissimo. Per ora la linea ufficiale di Forza Italia, cavalcata sin dall’inizio da Giorgia Meloni, è che se dovesse fallire il tentativo di Fico, allora toccherebbe al centrodestra provare a fare il governo: «prima di arrivare ad un’ipotesi di un governo del presidente penso si debba esplorare la possibilità di dare un incarico a Salvini e trovare i numeri per governare», afferma la capogruppo Mariastella Gelmini.