Quando il signor «Cardinale» sognava la rivoluzione nostrana
«Adesso le dò una notizia. Sa com’era soprannominato Giorgio Napolitano, alla direzione del Partito comunista?». Un divertito Gino Longo, figlio primogenito di Luigi, storico segretario del Pci, è in vena di rivelazioni, nello studio della sua casa affacciata sul lago di Como: «Glielo dico io, perché me lo confidò mio padre: lo chiamavano "il cardinale"…» La definizione di "cardinale", che allude all’atteggiamento curiale e all’aplomb un po’ grigio dell'attuale presidente della Repubblica «in scadenza», ex comunista in doppiopetto, fa il paio con l’altro nomignolo che la base del Pci napoletano gli aveva affibbiato: «Giorgio o sicco», per distinguerlo dall'altro Giorgio, dai lineamenti pingui: Amendola. Per non parlare di quel divertissement da comari di palazzo che ha indicato il capo dello Stato come figlio naturale di re Umberto II. Gino Longo, 91 anni, ha da pochi anni terminato di scrivere le sue memorie-fiume: 4.000 pagine di aneddoti e avventure, in salsa terzinternazionalista. Di Napolitano aggiunge soltanto: «È sempre stato un carrierista. Un uomo onesto, per carità, ma cercava tutti gli appigli per arrampicarsi. Napolitano non è mai stato comunista. Con mio padre non aveva proprio nulla in comune». Nessuno si sogna di mettere in discussione i meriti istituzionali del presidente Napolitano. Solo che, all’avvicinarsi dei consuntivi di fine mandato, quelli in cui abbonda la retorica di maniera, vale la pena di ricordare anche gli aspetti controversi della biografia di questo protagonista della vita pubblica nazionale. Il "migliorista", riformista quasi socialdemocratico, negli anni Cinquanta figurava tra i responsabili dell’apparato clandestino della Federazione romana del Pci. Lo si evince da una «riservata confidenziale» giunta, da Napoli, al ministero degli Interni, in data 26 maggio 1953. All’epoca il futuro presidente aveva 28 anni. Il documento, ignoto ai più, è incluso nel volume di Gianni Donno La Gladio rossa del Pci, pubblicato da Rubbettino nel 2001. Si tratta di un vero e proprio dossier contro-informativo basato sulle carte d’archivio analizzate dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi. La cosiddetta «Gladio rossa» era l’apparato paramilitare illegale del Partito comunista. Un’organizzazione finalizzata alla lotta armata, che certamente fu operativa fino agli anni Settanta, con scopi apparentemente soltanto "difensivi" (cioè volti a proteggere il Pci da un potenziale golpe nero), ma in realtà soprattutto "offensivi". In altre parole: si trattava di una vera e propria macchina da guerra, non certo in senso figurato, pronta ad attaccare il cuore del sistema democratico, allo scoccare dell’ora x. Esisteva, in altre parole, una strategia insurrezionale del Pci, che veniva costantemente aggiornata sulla base di direttive politiche dettate dal gruppo dirigente, in accordo con l’agenda politica del Cremlino. La Gladio rossa del Pci era una struttura illegale e invisibile, perfettamente aderente e sovrapponibile al partito legale e visibile, tanto che alle funzioni palesi del gruppo dirigente del partito, locale e periferico, corrispondevano quelle coperte e riservate. Scopo di questa struttura, vero cuneo piantato dai sovietici nel cuore del paese occidentale posto alla frontiera tra i due blocchi, era quello di tenere i fucili ben oliati nel caso in cui scoppiasse la rivoluzione interna. Tale apparato paramilitare, la prima vera organizzazione terroristica del dopoguerra, disponeva di arsenali nascosti, di tipografie, e poteva contare su una rete di recapiti segreti.