Ma che bella Famiglia quella del boss
Arrestati la sorella, il nipote e tre cugini del capomafia Messina Denaro Erano la rete di protezione del superlatitante. Ecco le intercettazioni choc
Sta incendiano i pozzi di petrolio mafiosi, la Procura di Palermo. Gli arresti che ieri hanno sgominato l'ultima (forse) rete di protezione del boss Matteo Messina Denaro, al di là dei numeri (trenta indagati in manette, tra cui due tecnici del ministero della Giustizia e una vigilessa lombarda) sono importanti per i nomi di quelli finiti in trappola: la sorella del padrino, Patrizia Messina Denaro; il nipote prediletto, Francesco Guttadauro; e i cugini Mario Messina Denaro, Lorenzo Cimarosa e Giovanni Filardo. L'inchiesta ha prosciugato, oltre che con il sequestro di 5 milioni di euro di beni intestati a prestanome, i più sicuri e redditizi canali di finanziamento della latitanza dorata dell'ormai 51enne «fantasma» di Castelvetrano: la gestione degli appalti edilizi e il racket delle estorsioni. La fuga dall'ergastolo di Messina Denaro costa. E molto. Dice la zia: «Chiddru avi a camminnare! Vannè, chiddru vola! E... senza soldi, un po vulare... lo hai capito?». Eppure, gli inquirenti sanno che, nonostante sia braccato giorno e notte, l'ultima parola, ce l'ha lui. Sempre la zia intercettata che parla troppo al telefono: «Lo informano! Lo informano! Lo tengono informato!... Vedi che lui comanda tutto Palermo, tutta la Sicilia di Trapani, tutta la provincia». Le attività investigative, scrive il gip che ha firmato le ordinanze di custodia cautelare, provano «come a Matteo Messina Denaro sia stata e sia stabilmente garantita, nonostante la persistente condizione di latitanza, la tempestiva e piena cognizione delle questioni di interesse del mandamento mafioso e l'esercizio delle prerogative di valutazione e decisione correlate alla riconosciuta sua funzione di vertice». A prendersi però i rischi sul campo sono i familiari e quel gruppo di faccendieri e «colletti sporchi» che si occupano di creare le provviste di denaro per le tante esigenze del «capo», simbolicamente definito nelle intercettazioni «quello che non è presente». A cominciare dalla sorella del padrino, di cui i pm di Palermo descrivono la ferocia e la spregiudicatezza nel minacciare e taglieggiare due compaesane che avevano ricevuto, ciascuna, 200mila euro di eredità da un'anziana parente, a suo tempo madrina di battesimo della stessa Patrizia Messina Denaro. Una richiesta estorsiva cominciata col cadavere ancora caldo, come si dice, durante i funerali della donna. «Mentre c'era la "zia" dentro alla macchina - si sfoga al telefono una delle vittime - noi eravamo dentro alla macchina, piglia viene... viene Patrizia e ci bussa... Ha cominciato a fare un macello... noialtri ora dobbiamo discutere perché voi qua vi siete fottuti le cose». La sorella del boss tenta di giustificare la richiesta della mazzetta facendo riferimento a un presunto precedente testamento in cui sarebbe stata anche lei citata come beneficiaria del lascito. Ma è un trucco, chiaramente. Patrizia, degli iniziali 200mila euro, ottiene solo un acconto da 70mila e la promessa di non essere denunciata in caso di interrogatorio da parte delle forze dell'ordine. Ma non si arrende perché manca ancora una tranche. E così manda il nipote Francesco Guttadauro a riscuotere il resto dal fratello dell'altra donna, più resistente alle minacce. Racconterà l'uomo terrorizzato ai pm: «Lui (il nipote del padrino, ndR) ritornò sull'argomento dell'eredità ricevuta da mia sorella riferendomi questa volta, testualmente: "Mi hanno detto di riferirti che quello che deve dare tua sorella, lo devi dare tu"». Ovvero: 100mila euro. Scrive il gip che, a fiancheggiare Patrizia Messina Denaro, c'erano anche i cugini del superlatitante. Giovanni Filardo, ad esempio, seppur detenuto, riusciva a coordinare le attività delle società che a lui facevano riferimento attraverso precise direttive impartite alla moglie, alle figlie e al cognato. Disponendo assunzioni, licenziamenti e pagamenti. Oltre che il progressivo svuotamento dei conti correnti aziendali, al fine di sottrarre beni agli scontati provvedimenti di sequestro e confisca e creare così fondi liquidi da nascondere «sottoterra» («Coi soldi occhio! Leva, leva, leva e scava... leva e scava», suggerisce alla figlia). Non a caso, infatti, gli investigatori lo spiano mentre istruisce i parenti sulla spoliazione dei beni aziendali: «È meglio che qualche cosa noi la cominciamo a vendere... Devi aspettare che se li prendono prima? Qualche mezzo lo cominciamo a vendere... caso mai ci teniamo l'escavatore, una pala e due camion, due 330 e poi tutte cose fuori». E anche sul travestimento societario: «Dovete cambiare il nome... il mio nome levatelo... Filardo Giovanni srl levatelo... metteteci... "Acqua minerale"... ma il nome mio non deve comparire». Del giro imprenditoriale fa parte anche l'altro cugino, Lorenzo Cimarosa, titolare di «Bf costruzioni srl» e «Mg costruzioni srl», che in una intercettazione si lamenta dell'avidità di Patrizia: «E acchiappa... la curta... acchiappa sempre». Quando Filardo finisce in carcere, è quest'ultimo a subentrargli (in dialetto, i familiari parlano che ha presto «lu postu di lu tronu»). Nel «ramo» estorsivo operava, invece, un terzo cugino, omonimo di Matteo Messina Denaro, di nome Mario. A lui i pm antimafia di Palermo contestano di aver tentato di imporre la «tassa della tranquillità» al centro diagnostico Hermes di Castelvetrano. Come nella più classica delle situazioni, facendo leva sul proprio nome, Mario Messina Denaro avrebbe minacciato i titolari della struttura affinché emettessero delle fatture di importi superiori per costituire un fondo in «nero» per procacciare un po' di grana e sostenere così le famiglie dei detenuti. Poi, sono arrivati quelli della Dia.