La ricetta del mio Mario non funziona
Ho accennato su queste colonne al mio rapporto di amicizia con Mario Monti: ci conosciamo da molti anni, abbiamo più volte constatato la diversità di punti di vista tra noi e ne abbiamo parlato, ma ci consideriamo amici. L'amicizia non è venuta meno neanche quando il contrasto di opinioni è stato di pubblico dominio.Ricordo bene quando, lui, commissario europeo, ed io ci scontrammo sull'idea, che a me sembrava insensata, che l'Europa avesse bisogno di un'armonizzazione fiscale. Ritenevo allora e ne sono convinto ancora oggi che pretendere di fare indossare a tutti gli Stati membri un vestito della stessa taglia, malgrado le diversità loro proprie, fosse una grossa sciocchezza e sostenevo che la concorrenza fra diverse politiche fiscali seguite dai vari Stati fosse altamente desiderabile. Nonostante l'amicizia, come sanno i lettori di questo giornale, il governo Monti non ha mai avuto il mio voto. Ho assistito, non senza raccapriccio, alla prosecuzione ancora più drastica delle politiche economiche del triplo Monti, che era riuscito a portare l'economia italiana al ristagno prima, alla recessione poi. Le politiche montiane hanno trasformato la recessione in depressione: il calo del reddito è divenuto maggiore, la disoccupazione è aumentata, l'eccesso di prelievo fiscale ha impoverito le famiglie e sta uccidendo le nostre imprese a decine, il debito pubblico è aumentato, raggiungendo livelli senza precedenti, e non si sono fatte riforme ma solo manovre, pudicamente ribattezzate «spending review». Appare, pertanto, strabiliante l'affermazione recente del presidente del Consiglio convinto che: «Abbiamo salvato l'Italia dal disastro». A parte il plurale maiestatico e la totale mancanza di senso del ridicolo, l'affermazione è campata in aria fritta. Quale importante indicatore economico è migliorato da quando il mio amico Mario è a capo del governo? Come se non bastassero il fallimento delle politiche di «stabilità» (parola che Monti ama molto, dimentico che la perfetta stabilità è offerta dai cimiteri) e la puerile vanteria, Monti ha deciso di avventurarsi in politica, non senza avere sottolineato a quanti e ben più importanti incarichi questa decisione lo costringesse a rinunziare. Naturalmente, la sua idea è di non fare politica in prima persona - non potrebbe né vorrebbe farlo - ma per interposta persona, affidandosi a personaggi di grande credibilità personale, politica e morale, che possano raccogliere i voti di una «società civile» in crisi di astinenza di Monti a capo di un governo politico. Ho qualche dubbio sulle potenzialità di tale progetto: né il leader degli orfanelli di Amintore Fanfani, né quello dei nostalgici una volta del fascismo, ora non si sa bene di cosa, mi sembrano in grado di dare smalto all'aggregazione pro-montiana. È ben vero che di essa fanno parte anche Luca Cordero di Montezemolo e il ministro Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, ma non mi sembrano tagliati per il ruolo di vincitori di consenso elettorale. In conclusione, temo che il destino riservi al mio amico Mario un futuro triste, simile a quello che è toccato a Padoa-Schioppa, Tremonti e simili. Il loro ruolo in politica ne ha irrimediabilmente lordato la reputazione e appannato gravemente il ricordo. Chiunque venga dopo il governo Monti avrà il compito non semplice di rimediare ai danni prodotti in questi mesi da persone dotate delle migliori intenzioni e delle peggiori nozioni, convinti che, spremendo il già tartassato contribuente, trasformando l'Italia in uno stato di polizia fiscale, cedendo la sovranità nazionale a un accordo internazionale pilotato e voluto dalla Germania, tutto sarebbe andato nel migliore dei modi, nel migliore dei mondi possibili. Per capire che le cose non stanno in questi termini non è necessario essere bocconiani, anche se forse non lo impedisce. Ne è prova la posizione di due eminenti bocconiani, i professori Giavazzi e Alesina che, andando all'assalto dell'Agenda Monti, sostengono che «C'è troppo Stato in quell'agenda» e che, quanto alle decantate riforme liberali, c'è «Troppo poco, troppo tardi». Se si tiene conto che Francesco Giavazzi è stato incaricato da Monti di rivedere i trasferimenti alle imprese, il che suggerisce che Monti lo stima, la critica diventa ancora più significativa, chissà se il presidente del Consiglio ne terrà conto. Personalmente ne dubito. Ma stia attento: agenda, come mutande, è un gerundio che serve a nascondere vergogne.