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A sinistra rinasce il «partito del no»

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Sel e Cgil sono già in campo per condizionare le scelte del futuro esecutivo Prime spaccature sulla guerra in Mali e sull'introduzione della patrimoniale

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Inrealtà il verbo esatto sarebbe stato si «ricomincia». Visto che anche in questo caso, esattamente come per le candidature che ripropongono i soliti noti, si tratta di un ritorno al passato. Ai tempi gloriosi del secondo governo guidato da Romano Prodi. Quello dell'Unione e della «maggioranzina» al Senato. Quando ogni voto si trasformava in un film thriller. Non tutto è rimasto uguale. Rita Levi Montalcini che in quel periodo divenne suo malgrado il simbolo di un governo retto sulla buona volontà dei senatori a vita, è morta lo scorso 30 dicembre. Un bel po' delle sigle della cosiddetta sinistra radicale (Pdci, Prc e Verdi) sono state inglobate da Antonio Ingroia e dalla sua Rivoluzione Civile. Clemente Mastella sembrerebbe più vicino al Pdl che al Pd. Mentre ciò che resta, l'asse Pier Luigi Bersani-Nichi Vendola, dovrebbe, secondo i sondaggi, ottenere un'ampia maggioranza tanto alla Camera quanto a Palazzo Madama. Che, però, potrebbe comunque non bastare. Perché ciò che non è cambiato è la «sinistra del no». Quella che dice sempre l'opposto del governo. Anche se si tratta di «amici». Due esempi concreti questa settimana. Il primo, appunto, quello della guerra in Mali. Venerdì mattina Bersani, ospite di Radio24, difende l'intervento militare deciso da Francois Hollande: «Qui in Italia non se ne parla perché abbiamo abbassato il profilo del nostro Paese e non si parla di politica internazionale, ma non possiamo lasciare la Francia sola con questo problema. L'Europa, e non la Francia, decida cosa fare. Prodi, inviato in Africa per l'Onu, ha detto che l'intervento ci vuole ma l'Europa riprenda il bandolo della matassa. Naturalmente, l'uso della forza deve essere l'anticamera per una discussione diplomatica e per una politica che riesca a stabilizzare l'area». Qualche ora dopo Vendola, al Tg3, si schiera sul fronte opposto: «C'è stato un errore clamoroso da parte del governo francese che ha interpretato in maniera un po' forzata il mandato dell'Onu. Il rischio Afghanistan è reale». Per la cronaca vale la pena ricordare che l'evento scatenante della crisi che portò alla caduta del governo Prodi nel 2008, fu proprio il voto sulle missioni internazionali, in particolare su quella a Kabul. Stesso giorno altro fronte. Il candidato premier del centrosinistra dice no all'introduzione di una «patrimoniale» sulle rendite finanziarie. Stavolta è la leader della Cgil Susanna Camusso ad alzare il muro: «Ognuno ha la sua opinione. Noi pensiamo che sia indispensabile fare la patrimoniale in questo Paese. Non ci raccontino che c'è già. Ci vuole una patrimoniale e, contemporaneamente, una lotta all'evasione fiscale». Insomma, si ricomincia. E la domanda diventa inevitabile: quanto potrebbe pesare questa «opposizione» nei futuri equilibri? Il Centro Italiano Studi Elettorali diretto dal professor Roberto D'Alimonte ha fatto una simulazione. Ipotizzando un Pd al 30-31% e i suoi alleati all'8-9%, i Democratici otterrebbero 136 senatori su 172 eletti. Con una forbice più ampia (Pd 30-34%, alleati 5%), 158. Tra 24 e 36 senatori sarebbero quindi del resto della coalizione. Non tutti di Sel, certo, ma sufficienti per condizionare le politiche dell'esecutivo. Almeno che non li sostituisca con quelli eletti da Mario Monti.

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