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Dalla resistenza alla desistenza.

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Il«rivoluzionario» Antonio Ingroia come il Fausto Bertinotti del primo governo Prodi. Cambiano i tempi ma Silvio Berlusconi resta. E, con lui, quell'incubo «sinistro» datato 1994. Quando la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto fu spazzata via dalla discesa in campo dell'imprenditore prestato alla politica. Stavolta la questione è un po' diversa. Il Cavaliere difficilmente riuscirà nell'impresa di vincere le elezioni. Ma la legge elettorale sembra riservagli più di qualche possibilità di «pareggiare» al Senato. Rendendo zoppo il successo di Pier Luigi Bersani costretto a fare i conti con una maggioranza risicata e instabile. Per di più ostaggio tanto della sinistra di Nichi Vendola quanto del centro di Mario Monti. Sarà forse per questo che, da qualche giorno, i Democratici hanno cominciato a guardare con sospetto a tutte quelle realtà che potrebbero rubare consensi al centrosinistra. E proprio ad Ingroia sarebbe stato offerto un patto di desistenza. È stato Leoluca Orlando, sindaco di Palermo e tra i firmatari del manifesto fondativo della lista guidata dall'ex magistrato a rivelarlo: «Dario Franceschini mi ha contattato a nome del Pd e mi ha proposto un accordo di desistenza, cioè mi ha chiesto di non presentare le nostre liste in regioni chiave quali la Sicilia, la Campania e la Lombardia. Credo siano molto preoccupati per la continua crescita della nostra lista "Rivoluzione civile"». Orlando ricorda anche che tutto questo accade dopo che il Pd, «nei mesi scorsi e nelle ultime settimane, ha opposto un netto no a qualunque dialogo per costruire una vera alternativa intransigente al berlusconismo e al montismo». E conclude: «Se questa dovesse essere una proposta elettorale francamente ritengo che sia una cosa molto modesta». Tocca al diretto interessato smentire l'avvio di qualsiasi trattativa. «Nessuna proposta di patto e nessuna desistenza - assicura Franceschini -. Le cose che ho detto a Orlando sono le stesse che ho detto pubblicamente in due interviste. Mi pare fin troppo evidente come non vi sia alcuno spazio per una qualsiasi forma di accordo politico con la lista Ingroia , anche per rispetto delle legittime ma profondamente diverse posizioni politiche tra noi e loro. Ho fatto una semplice constatazione aritmetica più che politica: per come è fatta la legge elettorale al Senato nelle regioni in bilico, come Lombardia, Sicilia e Campania, la presenza della lista Ingroia rischia di far vincere la destra, rendendo il Senato ingovernabile. Tutto qui». In serata, ospite di Otto e mezzo, l'ex pm se la cava con il «politichese»: «Non ho ricevuto richieste da Bersani. Non mi pare che ci siano in questo momento presupposti per un accordo di questo tipo. Parlare di patti di desistenza mi pare prematuro». Parole che però non cancellano la realtà. Il timore di un Senato «ostaggio» di Berlusconi esiste. Il negoziato magari non c'è o forse, più probabilmente, è nella sua fase iniziale. E la cosa potrebbe far piacere anche a Nichi Vendola che senza la competizione a sinistra con Ingroia & Co. potrebbe puntare a qualche posto in più in Parlamento. Il leader di Sel non si sbilancia: «Tocca a Bersani decidere, non a me. È lui il leader della coalizione. Penso tuttavia che il confronto con un'area di società civile e con le altre forze di sinistra vada costruito e portato avanti». Se poi dovesse esserci anche un'ipotesi di non belligeranza di certo il governatore pugliese non si strapperà le vesti. Ma Ingroia e gli «arancioni» non sono i soli cui il Pd ha riservato la propria attenzione. Anche Oscar Giannino, ospite di Un giorno da pecora, ha ammesso di aver ricevuto proposte di candidatura da Berlusconi, da Monti e anche da «un emissario di Bersani». «Ha mandato un ex Idv - prosegue - a dirmi: accetteresti di metterti con noi? Io ho fatto presente che, per esempio, noi di FARE siamo contro la patrimoniale, a differenza del Pd. Lui ha risposto che per me e quattro amici miei, comunque, il seggio ci sarebbe stato. E la stessa cosa me l'hanno detta quelli di Berlusconi e quelli di Monti». E mentre i suoi provano a recuperare voto su voto, a Bersani tocca il compito di lanciare segnali di pace verso il Professore. Intervistato dal Washington Post il candidato premier del centrosinistra assicura di essere aperto «alla collaborazione. Non uno scambio di favori, ma un patto per le riforme e la ricostruzione del Paese». Parole che servono sia a rassicurare il governo americano sulla volontà di Pd e Sel di non voler cancellare la stagione «montiana» (in un altro passaggio Bersani spiega che il suo non è un «partito socialista» ma «democratico»), ma anche per cercare di descrivere un possibile scenario futuro. Senato governabile o meno, i Democratici guarderanno verso Monti. Berlusconi «terzo incomodo» permettendo.

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