Silvio rischia l'isolamento
Epoi, come vedremo, anche il dopo-elezioni. Il Cavaliere continua ad avere davanti a sé una parete ancora troppo dura da scalare per raggiungere e sorpassare Pier Luigi Bersani. Così come su quest'ultimo, d'altronde, continua a gravare il pericolo, che va anzi crescendo, di una vittoria dimezzata: alla Camera, conquistando con il premio di governabilità anche la maggioranza assoluta dei seggi spettante a chi prende più voti, ma non al Senato. Dove i premi sono più di uno e variano da Regione a Regione, per cui al segretario del Pd potrebbe bastare di mancarne uno, magari quello più consistente spettante alla Lombardia, per non disporre della necessaria fiducia nell'aula di Palazzo Madama. Il Cavaliere ha un bel dire, più o meno allusivo, che in questo caso i due maggiori partiti, il suo e quello appunto di Bersani, potrebbero accantonare gli argomenti e le ragioni del duro scontro elettorale e farsi carico della responsabilità di garantire un governo al Paese. Come fecero nel 1976, incalzati dal terrorismo, dalla crisi economica e da un risultato elettorale paralizzante, la Dc di Aldo Moro e il Pci di Enrico Berlinguer. Ma è un precedente che per la sua anomalia e irripetibilità, e per il rischio di confusione o allarme fra i suoi stessi elettori, Berlusconi non può neppure evocare ora in modo esplicito. Per cui di esplicita, appunto, può solo esprimere l'ipotesi di una ricerca d'intesa fra Pdl e Pd di livello superiore a quello di governo, pensando alle riforme istituzionali e/o all'elezione del successore di Napolitano al Quirinale, cui si dovrà procedere nel mese di aprile, dopo che sarà stato formato il nuovo governo. Ma già questo calendario imposto dai tempi ravvicinati delle elezioni - prima il governo, cioè, e poi il capo dello Stato - aggiunge altri ostacoli al già impervio percorso immaginato da chi nel Pdl si sente incoraggiato dalla ripresa di Berlusconi. Che già nel 2006, a sorpresa, fu capace di fare arrivare l'avversario Romano Prodi al Senato tanto zoppicante da vederlo cadere in meno di due anni. Prima il governo, quindi, e poi tutto il resto. Ma sulla strada del governo, della formulazione del programma, dei suoi obbiettivi di breve, medio e lungo termine, del rispetto degli impegni presi con l'Unione Europea e di tutto ciò che ne potrà o dovrà conseguire, Bersani è destinato ad avere come interlocutore privilegiato Mario Monti, non il Cavaliere. Privilegiato, ripeto, per quanto scomodo a causa del proposito non nascosto dal presidente del Consiglio dimissionario di contendere Palazzo Chigi al candidato uscito dalle urne con il maggior numero di voti ma non autosufficiente in entrambi i rami del Parlamento. Privilegiato perché, al netto delle sparate e dei condizionamenti del suo alleato Nichi Vendola, le distanze di Bersani dall'agenda Monti sono minori che dall'agenda Berlusconi. Ciò che fa la differenza fra il Cavaliere e Monti, nella ipotesi di una trattativa imposta a Bersani da un esito non risolutivo delle elezioni, è il rapporto con Bruxelles e dintorni. Un rapporto che Berlusconi ha reso così critico, anche con le ultime polemiche sul carattere complottistico delle sue «forzate» e non più volontarie dimissioni da presidente del Consiglio nell'autunno del 2011, da entrare in conflitto con i vertici comunitari e del Partito Popolare Europeo. Che hanno sponsorizzato e sponsorizzano Monti in antitesi ormai esplicita proprio con Berlusconi, sino ad alimentare, a torto o a ragione, il timore o la speranza, secondo i punti di vista, di una rottura ancora più clamorosa con il Cavaliere prima del voto, ai limiti dell'interferenza elettorale. Per quanto rafforzato da un recupero di cui è sicuramente capace, Berlusconi potrebbe dunque rischiare nel nuovo Parlamento di essere relegato al ruolo di opposizione, al pari della Lega, e di Beppe Grillo, e della sinistra arancione di Vendola, da qualcosa di simile a ciò che fu invocato e applicato durante la cosiddetta Prima Repubblica contro il Movimento Sociale. Ai cui voti si ricorreva solo in casi eccezionali, magari definendoli in pubblico «non richiesti e non graditi», anche quando segretamente erano stati cercati per far passare un governo o eleggere un presidente della Repubblica. Ieri si chiamava, contro la destra, «patto costituzionale». Domani, contro il Pdl e Berlusconi, potrebbe chiamarsi «patto europeo». Anche se è curioso che a brandirlo siano disinvoltamente anche partiti e uomini eredi di un Pci che all'Europa intesa come comunità politica ed economica si avvicinò molto, ma molto tardi, dopo averla a lungo scambiata, come nella Mosca di Stalin e successori, per una maionese capitalistica e reazionaria, al pari dell'America.