di Francesco Damato Dal celebre «Rieccolo» di Indro Montanelli, dato ad Amintore Fanfani per uno dei suoi tanti ritorni sulla scena dalla quale gli avversari interni ed esterni alla Dc si illudevano di averlo allontanato per sempre, ma applic
Cheera Roberto Maroni, tanto poco convinto di una crisi covata sin dentro le stanze del Quirinale, tra gli incoraggiamenti e le assicurazioni anti-elezioni anticipate fornite alla Lega dall'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, da rischiare l'espulsione dal partito. Di acqua ne è passata da allora sotto i ponti. Berlusconi si è perso per strada, alla guida del centrodestra, prima Pier Ferdinando Casini e poi Gianfranco Fini. E Bossi, ferito prima dalla salute malferma e poi da un improvvido «cerchio magico» di familiari e pretoriani ora alle prese con guai giudiziari, ha dovuto cedere le redini proprio a Maroni. Quello accusato a suo tempo di tenere troppo all'intesa con il Cavaliere. E firmatario l'altra notte del nuovo patto di alleanza, in uno sprint probabilmente destinato a procurare parecchi mal di pancia nella base leghista, già frustrata dall'epilogo dell'avventura di Bossi e per mesi galvanizzata dallo stesso Maroni con la promessa di un braccio di ferro irriducibile con il Cavaliere. Ma, si sa, in politica, come soleva dire il povero e simpaticissimo sindacalista socialista Ferdinando Santi commentando i rapporti altalenanti del suo compagno e segretario di partito Francesco De Martino con la Dc, «si resiste sino a un momento prima di cedere». Anche Maroni ha ceduto al protagonismo non certo rientrato di Berlusconi, nella speranza di ricavarne vantaggio nella sua difficilissima corsa a «governatore» della Lombardia, in concorrenza con il candidato del centrosinistra, Umberto Ambrosoli, e con un altro del centrodestra, l'ex sindaco di Milano ed europarlamentare in carica del Pdl Gabriele Albertini. Ma anche Berlusconi ha dovuto realisticamente cedere, sia pure a buon mercato nelle condizioni in cui si trova ormai il suo schieramento, accettando di distinguere finalmente tra leadership e premiership. Per cui si è tenuta ben stretta la leadership della coalizione, con il suo nome stampato sulle schede elettorali nel simbolo, ma riservandosi di designare al capo dello Stato, d'intesa con gli alleati, il nome della persona alla quale affidare l'incarico di formare il governo, se mai dovesse capitargli di vincere le elezioni per un crollo improvviso della coalizione in testa da tempo nei sondaggi: quella guidata da Pier Luigi Bersani. E pazienza se in tutti gli altri appuntamenti elettorali della seconda Repubblica, a dispetto delle prerogative costituzionali di nomina rimaste nelle mani del capo dello Stato, egli ha sempre rivendicato il diritto di scambiare per elezione praticamente diretta del presidente del Consiglio l'affermazione del candidato a Palazzo Chigi indicato nel simbolo della coalizione sulla scheda. Sarà rimasto contento ieri il buon Giorgio Napolitano, appena rientrato a Roma dalla sua breve vacanza partenopea, nel sentire Berlusconi finalmente convenire con lui sul fatto, appena ricordato nel messaggio di Capodanno, che a conferire l'incarico di formare il nuovo governo è appunto il capo dello Stato, senza alcun automatismo obbligato tra risultato elettorale e definizione della maggioranza parlamentare necessaria alla fiducia prescritta dalla Costituzione in entrambe le Camere. Entrambe, appunto, per cui Bersani dovrà continuare a preoccuparsi dei risultati della sua corsa al Senato, dove proprio la ritrovata alleanza fra Berlusconi e la Lega potrebbe complicargli terribilmente le cose, mettendo a repentaglio i premi di maggioranza nelle regioni-chiave della Lombardia e del Veneto. E indebolirlo quindi in una eventuale trattativa con il cosiddetto Centro, fermo nella rivendicazione della presidenza del Consiglio per Mario Monti. Ciò significa, fra l'altro, che la rinnovata alleanza fra Berlusconi e la Lega potrebbe tradursi in un vantaggio per Monti non certo desiderato dall'uno e dall'altra, che hanno potuto ritrovarsi insieme proprio grazie alla rottura intervenuta un mese fa fra il Cavaliere e il presidente del Consiglio uscente. Significa inoltre che i montiani, chiamiamoli così, potrebbero avere interesse a perdere le loro partite regionali in Lombardia e in Veneto a vantaggio del cartello berlusconiano per ritrovarsi più forti al Senato nel rapporto con Bersani. Sono gli effetti paradossali, a dir poco, di una legge elettorale di cui non possono certamente lamentarsi, come invece hanno la faccia tosta di fare, i partiti che hanno voluto preservarla con lunghe e infruttuose trattative per riformarla, alla maniera di Penelope con la tela che fingeva di tessere per guadagnare tempo, in attesa e nella speranza del ritorno del suo Ulisse, e sottrarsi ai pretendenti. Ma i nostri «eroi» non attendevano Ulisse. Volevano solo tenersi strette le sconcezze delle liste bloccate, della mancanza di una soglia minima per l'aggiudicazione del premio unico e solidissimo di maggioranza alla Camera e della lotteria dei premi regionali di cosiddetta governabilità al Senato. Avete voluto tutto questo, cari signori convinti di essere statisti o candidati a diventarlo? Ebbene, adesso tenetevelo. E non state lì a contestare, come ha fatto in televisione Giulio Tremonti, il candidato premier preferito da Maroni all'Angelino Alfano preferito da Berlusconi, la priorità reclamata da Monti per la riforma elettorale nella nuova legislatura. A meno che qualcuno non voglia prenotarsi con queste regole bislacche anche per il turno elettorale successivo a quello di fine febbraio, magari ancora più, ma molto più anticipato, alla faccia delle emergenze economica, finanziaria ed ora anche sociale del Paese.