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Il Centro è stato commissariato dal Professore

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Chiamiamo le cose con il loro nome, anche a costo di scandalizzare i politici più suscettibili. Nelle quattro ore d'incontro che ha avuto ieri con Pier Ferdinando Casini e amici Mario Monti ha di fatto commissariato l'area di centro che gli si era già consegnata appoggiandone in Parlamento il governo tecnico con convinzione maggiore dei due partiti più grandi, il Pdl e il Pd, ritrovatisi in una stessa, «anomala» maggioranza. Quella imposta l'anno scorso dall'esplosione di una vera e propria emergenza economica e finanziaria, diventata proprio con quel governo anche emergenza politica e istituzionale. Un governo che Casini come leader dell'Udc ebbe sicuramente la preveggenza e il merito di indicare per primo invocando una prova di «responsabilità nazionale». Ma che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non avrebbe potuto di certo mettere in cantiere e nominare se Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani non si fossero comportati appunto da responsabili. Berlusconi, in particolare, pur provocato da indecenti manifestazioni di strada e di piazza, le solite, si dimise da presidente del Consiglio pur non essendo mai stato battuto in una delle numerose votazioni di fiducia affrontate nell'ultimo anno del suo governo. A cominciare da quella di sfiducia di fatto promossa a Montecitorio alla fine del 2010, con disinvoltura senza precedenti, dallo stesso presidente della Camera Gianfranco Fini. Di cui gli storici diranno, visto che i cronisti si sono inutilmente divisi, se fu espulso dal partito che aveva fondato insieme con Berlusconi, il Pdl, o si espulse da solo. O fece di tutto per farsi espellere, contestando a lungo l'azione del governo e della maggioranza, di cui pure facevano parte uomini e donne del suo partito di provenienza: il Movimento Sociale prima e Alleanza Nazionale poi. L'iniziativa di Fini e dei suoi amici, ritrovatisi in un nuovo partito - Futuro e Libertà - destinato a rivelarsi pieno più di ambizioni che di voti, fu assunta in tempi e in modi così stravaganti, a dir poco, che dovette intervenire il capo dello Stato per «consigliare», cioè imporre, un differimento dell'offensiva parlamentare e mettere in sicurezza l'approvazione di una legge dovuta come quella finanziaria. Bersani, dal canto suo, pur stimolato in senso contrario da molti compagni, nel partito ma anche fuori, smaniosi di ricavare vantaggi elettorali dalle difficoltà di Berlusconi, si rese conto del rischio, peraltro non ancora svanito, di non poter affrontare la gravità della crisi economica e finanziaria con una coalizione e poi con un governo sufficientemente omogeneo e attrezzato. E rinunciò alla prospettiva di uno scioglimento immediato delle Camere. Una «colpa», questa, che ancora rimproverano al segretario del Pd settori del suo partito e gruppi della sinistra massimalista con cui Bersani ha commesso l'imprudenza di allearsi in vista delle elezioni del 24 febbraio prossimo. In qualche modo imbaldanzito dal successo conseguito, nei fatti, con le dimissioni del Cavaliere e con la formazione di quel governo di emergenza e di decantazione reclamato per primo, il Centro costituito dall'Udc e da cespugli vari ha continuato a puntare su Monti anche per il «dopo Monti». Prima chiedendo appunto «Monti dopo Monti», per usare lo slogan lanciato da Casini in persona pensando ad un governo post-elettorale ancora guidato dal professore bocconiano e senatore a vita, in versione magari non più tecnica ma politica, sostenuto di nuovo, più o meno volentieri, dai due partiti maggiori a causa della perdurante crisi economica. Poi accarezzando l'idea di fare di Monti anche una bandiera elettorale per l'area centrista, capace di convogliare davvero voti in uscita dal Pdl e dal Pd e tentati o dal movimento di protesta di Beppe Grillo o dalla pratica, anch'essa protestataria, dell'astensionismo. Ma un'idea, questa, che ha rischiato per un po' di essere utile, più che al Paese, agli interessi momentanei dell'area partitica e parlamentare di centro. Un'area che da sola, senza Monti, vale poco o niente, come dimostrano le percentuali elettorali vaganti attorno al 5 per cento alle quali a livello nazionale è rimasto a lungo inchiodato Casini, ma con Monti già si vede attribuire nei sondaggi fra il 15 e il 20 per cento, contendendo il secondo posto della graduatoria al partito di Berlusconi e al movimento dei grillini. Consapevole di questa realtà, e penso anche dei limiti dimostrati dai centristi quando erano alleati del Cavaliere e non lo aiutavano certo a governare inseguendo più i voti delle loro aree elettorali di riferimento, per esempio quella del pubblico impiego, che il risanamento economico e l'allineamento ai parametri europei, come facevano su altri versanti i leghisti; consapevole, dicevo, di questa realtà, Monti ha dato al Centro un'agenda, cioè un programma. E si è riservato l'ultima parola, non solo sotto il profilo «penale», sulle candidature delle liste, prima di accettare di esserne indicato come il «capo», secondo la formulazione della legge elettorale. Ecco, è questo il commissariamento.

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