di Francesco Damato Pier Luigi Bersani ha trovato curiosi soccorsi a destra nella difesa della sua corsa a Palazzo Chigi dal rischio che a contendergli il traguardo alla fine del giro elettorale sia Mario Monti.
Altresoluzioni non sembrano praticabili dopo che lo stesso Monti, incalzato l'altra sera in televisione da Lilli Gruber, ha avvertito di non avere intenzione di spendere il proprio eventuale potere contrattuale accontentandosi di fare il ministro di Bersani, neppure al superdicastero dell'Economia. E dopo che il Quirinale è uscito dalla partita post-elettorale, mancando ancora due preziosi mesi alla fine del mandato di Giorgio Napolitano quando si tratterà di formare il nuovo governo. Sul Colle, d'altronde, occorrerebbe per consuetudine e logica una personalità politicamente defilata, quale Monti ha volontariamente e consapevolmente smesso di essere partecipando attivamente alla campagna elettorale. Nella quale ne prende e anche ne dà un po' di santa ragione a destra e a sinistra, anche se lui ottimisticamente dice di ritenerle entrambe superate. È proprio da destra che ieri sono stati liquidati come «balle» i quattro precedenti della cosiddetta prima Repubblica da noi evocati scavando in un generico richiamo fatto dal capo dello Stato nel messaggio di Capodanno. Precedenti che portano due volte il nome di Bettino Craxi e una volta ciascuno quelli di Giovanni Spadolini e di Giuliano Amato, incaricati o nominati alla presidenza del Consiglio fra il 1979 e il 1992 pur avendo i loro partiti - il Psi e il Pri - ottenuto nelle urne meno della metà dei voti della Dc. I cui dirigenti pertanto furono molto più realistici e responsabili di quanto mostrino di voler essere ora Bersani e i suoi sostenitori, convinti che chi prende più voti possa e debba fare il comodo suo nelle aule parlamentari, pur non disponendo della maggioranza assoluta dei seggi in una delle due Camere. I precedenti della prima Repubblica non varrebbero in questa seconda, o in questa terza incipiente, quale molti già considerano la creatura in arrivo con le votazioni di fine febbraio, perché i sistemi elettorali sono diversi: proporzionale il primo e maggioritario l'altro, aperto l'uno a tutti i compromessi post-elettorali e chiuso il secondo a ogni soluzione diversa da quella indicata ai cittadini prima delle elezioni. Ma, ahimè, e come vedremo, queste sì che sono balle, al netto di tutte le apparenze. I sistemi elettorali sono certamente cambiati, e più volte, dal lontano 1979, l'anno del primo incarico a Craxi da parte dell'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini. Che tornò a dare il mandato di governo a Bettino anche dopo le elezioni successive, stavolta con successo, e non per una pugnalata dei partiti agli elettori. Craxi aveva detto in tempo, e a chiare lettere, che avrebbe rifatto un governo con la Dc dopo il voto solo a condizione di poterlo guidare per il principio dell'«alternanza». Che sostituiva quello più duro e completo dell'«alternativa», impossibile in quell'epoca per ragioni di aritmetica parlamentare e di collocazione politica internazionale dell'Italia. E la Dc del pur esigente Ciriaco De Mita, forte del suo 32,9 per cento di voti contro l'11,4 del Psi, accettò ragionevolmente. Ma, a parte questi particolari non certamente irrilevanti, va detto che se i sistemi elettorali sono cambiati, è rimasto immutato il sistema istituzionale, di una Repubblica cioè parlamentare, nella quale si è fatto finta per un po' di tempo di affidare direttamente agli elettori la scelta del presidente del Consiglio, indicando il nome del candidato sulle schede elettorali accanto o nello stesso simbolo dei partiti o delle coalizioni in lizza, ma in realtà il governo ha continuato a dipendere dalla nomina da parte del capo dello Stato e dalla fiducia delle Camere. Lo ha appena ricordato, del resto, lo stesso Napolitano nel messaggio di Capodanno, anche se molti non hanno voluto né sentire né capire, ostinati nella sciocca rimozione della realtà quando non piace. Prendiamo tuttavia per buona la storia dei sistemi elettorali cambiati, ricavando come conseguenza il rifiuto dei precedenti della prima Repubblica. Ebbene, incorreremmo in altri e ancora più scomodi precedenti nella cosiddetta seconda Repubblica: scomodi per le attese di Bersani e dei suoi sostenitori, di sinistra e curiosamente - ripeto - anche di destra. Di governi difformi, per guida e composizione, dai risultati elettorali a monte della loro formazione, la seconda Repubblica è infatti ancora più piena della prima, soprattutto tenendo conto della ben diversa durata dell'una e dell'altra. In particolare, nei 18 anni della seconda Repubblica, cioè fra il 1994 e il 2012, abbiamo avuto ben 5 governi su 11 diversi da quelli considerati usciti dalle urne. Sono stati il primo e unico governo di Lamberto Dini, il primo e il secondo governo di Massimo D'Alema, il secondo governo di Giuliano Amato e il governo uscente di Mario Monti. Gli altri sei sono stati i due guidati da Romano Prodi e i quattro da Silvio Berlusconi, arrivati entrambi a Palazzo Chigi dopo avere vinto le elezioni. Se il conto poi lo facciamo non con il numero dei governi ma con quello dei presidenti del Consiglio, il quadro risulta ancora più negativo dall'angolo visuale che vorrebbero imporre adesso Bersani e i suoi ambivalenti sostenitori. Infatti i presidenti del Consiglio succedutisi nella seconda Repubblica sono stati sei, dei quali solo due - i già ricordati Prodi e Berlusconi, o viceversa, secondo l'ordine del loro arrivo a Palazzo Chigi - in base ai risulati elettorali. Gli altri quattro sono stati tutti, diciamo così, di risulta. Derivati cioè dai compromessi post-elettorali fra i partiti. E tutti e quattro accettati, a volte persino designati, da chi avrebbe potuto sentirsene defraudato con una lettura intransigente dei risultati delle elezioni. Dini fu designato nel 1995 da Berlusconi, che lo aveva avuto come ministro del Tesoro. D'Alema fu accettato da Prodi nel 1998, Giuliano Amato designato da D'Alema nel 2000 e Mario Monti accettato nel 2011 da Berlusconi.