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Le regole uccidono confronto e libertà

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Latelevisione mostra ed è il medium delle novità, delle dirette, degli avvenimenti; il cinema dimostra; la radio fa agire; la stampa spinge a riflettere; l'affissione dei manifesti coinvolge ed internet rende partecipi in tempo reale, dialogico ed avvicina al di là del potere. Questa laica ed ovvia considerazione in merito alla declinazione dei vari mezzi comunicativi diventa necessaria nell'Italia 2013 in campagna elettorale perché tra legge sulla par condicio, commissione di vigilanza, Agcom e chi più ne ha più ne metta, la porta girevole dei media, in particolare e soprattutto la tv, si trova ad essere iper-regolamentata con ospitate, vedi quella di Mario Monti per Befana da Giletti a Domenica in, che saltano come se il pubblico, bambino, avesse bisogno di un filtro ai filtri culturali che ne tutelasse l'immaturità. Ed allora ecco il no a Monti, le proteste per troppo Berlusconi in tv o per l'inflazione delle primarie del Pd e chi più ne ha più ne metta. Ma perché da noi nessuno - in particolare intellettuali e politica - riesce a parlare senza ideologia dei media, in particolare della televisione? Non sono, forse, in campagna elettorale una notizia le interviste a Monti od a Berlusconi od a Bersani? La risposta a questi interrogativi sta nella mancata e spesso sbagliata considerazione del mezzo comunicativo che le élite, a cominciare da quelle della carta stampata, hanno attribuito alla televisione salvo poi ricredersi al momento di elezioni nazionali o locali. C'è in questo approccio una recondita arretratezza tutta italiana, Paese dove si è sempre letto pochissimo e con la crisi ancora meno, verso tutto ciò che arriva dalla tecnologia e dalla modernità. Sottovalutazione, in condizioni normali, dell'impatto che la tv può avere sulla formazione del consenso e della opinione pubblica che - a cominciare dal primo giorno di campagna elettorale - diventa sopravvalutazione attorno ai poteri demiurgici del mezzo. Quello che i legislatori e gli intellettuali sembrano non aver ben preso in considerazione è che - nella comunicazione come in politica - se si manipola troppo il senso delle parole si perde il senso dell'azione. Per questo negli Usa, Paese regno della libertà di stampa, la regola aurea è nessuna regola oltre la tutela costituzionale alla libertà di pensiero. Troppe regole per la libertà, infatti, significano meno libertà comunque. E se il timore nazionale, poi, fosse quello del conflitto d'interessi del Cavaliere, l'ovvia considerazione è che non lo si risolve certo non mandando Monti in tv o riducendo le presenze di Berlusconi bensì facendo una legge sul conflitto di interessi. Punto e basta. C'è in questo strabismo tutto italiano che fa dei media filtri culturali un'ideologia da cui proteggere l'elettore, una scarsa considerazione degli elettori, dei giornalisti e degli operatori dei media e - ultimo ma non in ordine di importanza - una sbagliata valutazione del mezzo. Valga per tutti il de profundis sulla morte dei talk show pronunciato, nei mesi passati da 3/4 della stampa italiana o gli elogi ai tecnici, Mario Monti compreso, quando non si vedevano in tv. Come se la politica e l'informazione, laicamente, non vivessero della stessa merce: la seduzione dell'elettore/cittadino la prima e del lettore/spettatore la seconda. Fossimo un Paese laico avere mercato ed esporre le proprie convinzioni non sarebbe certo un peccato di lesa maestà al totem di una ideale par condicio - latinismo barocco in tempi di internet e di inglese - bensì un parlar chiaro, in attesa di giudizio. Degli elettori.

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