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La politica meglio in tv che in piazza

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Lodeduco dal confronto che, con i miei ottant'anni e rotti, posso fare fra la cosiddetta comunicazione politica di oggi e quella possibile ai tempi della mia ormai lontana giovinezza. Quando arrivò la tivù ero un giovane comunista. Lavoravo da circa un anno, con altri tre o quattro compagni della mia età, nella piccola redazione napoletana di «Paese Sera». Colpiti dai primi effetti prodotti da quel nuovo attrezzo nella vita delle nostre piccole associazioni partitiche, e soprattutto nell'impiego del tempo libero serale da parte dei nostri compagni più semplici e schiettti, discutemmo per un pezzo del problema con la nostra petulante serietà. Ma avevamo quasi tutti le teste purtroppo piene di pregiudizi sui nuovi media desunti dalla lettura della più arcigna letteratura mass-mediologica di sinistra di quegli anni, fra l'altro denunciò il crescente ricorso del nuovo potere capitalistico mondiale a sempre più subdole tecniche audio-visive a fini (come spiegò un famoso sociologo americano del tempo: Vance Packard) di «persuasione occulta». Ragion per cui noi concludemmo che quell'aggeggio elettronico, per i suoi evidenti rapporti con gli interessi di quei poteri, avrebbe potuto produrre un bel po' di disastri anche e forse soprattutto, appunto, nella comunicazione politica. Invece è proprio questo il campo che probabilmente ne ha tratto i maggiori vantaggi. E a dimostrarlo dovrebbe bastare un confronto fra la natura e gli effetti di quello che oggi, in tutti i Paesi del mondo, è ormai il principale veicolo di informazione politica (il discorso politico dal video di ogni specie e forma: telegionale, teleintervista, teledibattito, talk-show, spot propagandistico e altre tipologie di trasmissioni) e ha assorbito la natura e gli effetti dell'istituzione che giornali a parte, assolveva la medesima funzione prima della deprecata età televisiva. Ebbene, qual era una volta, un po' dappertutto nel mondo, per la grande maggioranza degli uomini e delle donne, il grande e a volte unico luogo di partecipazione politica? Era, ovviamente, il comizio in piazza. Il quale, indipendentemente dal colore delle bandiere che garrivano sui suoi palchi, fu ed è tuttora (nella misura in cui il triste rito sopravvive ancora oggi) una demagogica sagra di armenti di fanatici gregari disposti in primo luogo ad aspettare pazientemente per ore l'arrivo degli oratori davanti a una tribuna imbandierata, sotto il fiotto incessante delle parole d'ordine e degli inni di partito vomitati dagli altoparlanti gracchianti, e in secondo luogo decisi ad ascoltarli in silenzio per altrettante ore, essendo loro concesso soltanto, dalla struttura stessa dell'evento, il dovere di ascoltare e di applaudire la parola che i loro capi bercianti pronunciavano a turno dal palco. C'è davvero, in tutto questo, qualcosa che meriti di essere rimpianto o comunque preferito alla discretissima scena, perfettamente privata, perfettamente domestica, perfettamente pacifica, perfettamente borghese, del cittadino che seduto davanti al proprio televisore, solo o circondato dai suoi cari, ed eventualmente anche dai suoi amici, decide di ascoltare, sempre che ne abbia voglia, questo o quell'altro degli innumerevoli discorsi politici in circolazione nel suo villaggio elettronico, di ogni possibile orientamento e stile, da quello più sobrio ed elegante a quello più volgare e imbonitorio, restando libero dal principio alla fine, non appena si sia stufato, di tappare la bocca a qualsiasi tribuno spegnendo di botto l'apparecchio col telecomando, o saltando in un altro canale, per vedersi magari un bel vecchio film dell'èra pretelevisiva?

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