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di Francesco Damato Anche nel suo ultimo messaggio di Capodanno il presidente della Repubblica ha voluto dare una mano - e che mano - a Mario Monti.

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Ene ha inoltre condiviso indirettamente lo sforzo, sollecitandolo per tutti, di selezionare bene gli aspiranti alle Camere, come «appello» contro l'osceno sistema delle liste bloccate rimasto in vigore con la vecchia legge. In particolare, Napolitano ha detto che il capo del governo uscente, pur non potendosi candidare al Parlamento perché ne fa «già parte come senatore a vita», nominato proprio da lui 14 mesi fa, «poteva, e l'ha fatto, patrocinare una entità politico-elettorale, che prenderà parte alla competizione al pari degli altri schieramenti». Antonio Di Pietro e la Lega, al solito, hanno protestato. Pdl e Pd hanno sinora incassato in silenzio, apprezzando anzi nel suo complesso il messaggio di Napolitano: anche il Pdl, ripeto, il cui presidente Silvio Berlusconi si era fatto un po' troppo prendere la mano dalla campagna elettorale sino a poche ore prima includendo il comportamento del presidente della Repubblica nelle circostanze da «congiura» da chiarire in una pur improbabile inchiesta parlamentare sulla nascita del governo Monti. Che pure avvenne con il suo decisivo consenso nel novembre del 2011. Ma Napolitano non si è limitato a riconoscere la «possibilità» di Monti di partecipare alla competizione elettorale patrocinando quella che ha definito «un'entità politica». Egli ha anche ricordato, avendone buona memoria personale, come vedremo, che quello di cui il presidente del Consiglio dimissionario si è reso in questi giorni protagonista «non è il primo caso nella storia recente». Il precedente, pur non esplicitato per garbo con il nome, è quello di Lamberto Dini, oggi senatore uscente del Pdl. Che fu chiamato nel 1995 dall'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro a guidare un governo tecnico di decantazione, anche in quella occasione con il consenso di Berlusconi fresco di dimissioni da presidente del Consiglio, e si presentò alle elezioni politiche anticipate dell'anno successivo con suo partito e una sua lista nella coalizione dell'Ulivo guidata da Romano Prodi. Nel cui primo governo egli fu poi chiamato a ricoprire l'importante ruolo di ministro degli Esteri. Napolitano invece, esponente autorevole, per quanto distaccato, del Pds-ex Pci, divenne ministro dell'Interno. Da qui il mio richiamo alla memoria personale, e non solo d'archivio, dell'attuale presidente della Repubblica quando vi ha puntigliosamente alluso. Il precedente di Dini avrebbe dovuto quindi consigliare più prudenza, nelle critiche mosse a Monti per la sua partecipazione alla competizione elettorale, allo stesso Dini. Ma anche a Pier Luigi Bersani e compagni del Pd. Che furono ben felici nel 1996, con le sigle allora del Pds e del Ppi, come si chiamava la ex sinistra democristiana, di avvalersi del contributo decisivo di un «tecnico» in uscita da Palazzo Chigi per vincere le elezioni e andare al governo. Anche dell'aiuto di Monti, evidentemente, essi sarebbero stati stavolta felici, senza disquisire sulla sua natura di «tecnico», se il professore bocconiano avesse scelto di allearsi con loro. Cose di ordinaria incoerenza in una lotta politica intesa e praticata più con livore e opportunismo che con intelligenza. O con quello che il presidente della Repubblica, sempre nel suo messaggio di Capodanno, ha chiamato «senso del limite e della misura», raccomandandolo, spero non inutilmente, almeno da oggi in poi, a tutti i partiti impegnati in questa campagna elettorale ormai in corso. Per tornare a Dini e al suo precedente da lui disinvoltamente ignorato nella polemica condotta nei giorni scorsi, è augurabile che a questo punto egli non torni a usare contro il presidente del Consiglio dimissionario e la sua partecipazione alla competizione elettorale un altro suo argomento, generosamente ignorato da Napolitano: il ruolo di senatore a vita. Che, secondo Dini, avrebbe dovuto e dovrebbe imporre a Monti una specie di neutralità politica. Anche questa è un'accusa che non sta in piedi, specie se a sostenerla dovesse essere ancora Dini, che a un senatore a vita - il compianto Francesco Cossiga - deve almeno metà della sua esperienza quinquennale di ministro degli Esteri. Vi racconto come e perché. Caduto nell'autunno del 1998 il primo governo ulivista di Prodi per mano del «rifondatore» comunista Fausto Bertinotti, lo stesso Prodi e il suo allora vice presidente del Consiglio Walter Veltroni reclamarono le elezioni anticipate: giustamente per la loro posizione, ma anche nell'interesse che avrebbe dovuto avvertire tutta la sinistra autenticamente riformista, non solo a parole. Invece l'allora segretario del Pds Massimo D'Alema, come gli avrebbe rimproverato nel 2012 anche il giovane Matteo Renzi reclamandone nel Pd la «rottamazione», preferì succedere a Prodi a Palazzo Chigi senza passare per le urne. Egli si tenne ben stretti i voti parlamentari dei comunisti dissidenti da Bertinotti, quelli di Armando Cossutta e Oliviero Diliberto, e sostituì gli altri con quelli di un partito nuovo di zecca. Che era stato costituito proprio da Cossiga, e proprio - scusate la ripetizione - in vista della caduta di Prodi, composto di transfughi da Forza Italia e cespugli vari del centrodestra. L'ex presidente della Repubblica si divertiva a chiamarli «gli straccioni di Valmy», ricordando l'esercito raccogliticcio della Francia rivoluzionaria che il 20 settembre del 1792 con 24 mila uomini riuscì a sconfiggere ben 80 mila soldati prussiani e austriaci, attrezzati e organizzati di tutto punto. Quel partito si chiamò Udr, trasformato dal segretario Clemente Mastella in Udeur, dopo che Cossiga si era tirato indietro rendendosi conto di avere fatto una scommessa politica sbagliata, come solo lui sapeva riconoscere con onestà e trasparenza rare in politica. Ma quel seme bastò, e avanzò, per far crescere ben due governi di D'Alema e un secondo governo di Giuliano Amato, fra il 1998 e il 2001, con Dini sempre alla Farnesina.

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