Renzi vince il duello in tv Ma Bersani resta favorito
L’«arbitro» dell’incontro, Monica Maggioni, lo sottolinea subito. Il dibattito tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi si svolgerà secondo «regole certe che abbiamo deciso con i vostri staff». Stessa domanda per entrambi, due minuti per la risposta, la possibilità di replicare (5 volte ciascuno) per trenta secondi. In platea telefoni spenti, nessuna foto e applausi contenuti per i «tifosi». Visto lo scontro sempre acceso sulle regole delle primarie e i reciproci scambi di accuse, meglio specificarlo prima. I colori predominanti all’interno dello studio 4 della Dear di Roma sono il rosso (alle spalle dei contendenti) e il blu. Gli stessi delle cravatte dei due sfidanti: rossa con pallini per Pier Luigi, blu per Matteo. Entrambi in piedi davanti al leggìo. Il primo in vestito (blu), il secondo in maniche di camicia (bianca). Il primo scarica la tensione agitando i suoi occhiali, il secondo un pennarello con cui sottolinea e scrive sui fogli che ha davanti (assieme all’immancabile iPhone). Poche battute e si capisce quale sarà il leit motive della serata. Renzi deve smarcarsi dal centrosinistra. O meglio da quella classe dirigente che, tra Parlamento e fugaci apparizioni governative, ha giocato un ruolo da protagonista nel cosiddetto «ventennio berlusconiano». Lui è il nuovo, Bersani è il vecchio. E ha già fallito. Perché dargli un’altra possibilità? È la domanda che, tra le righe, il sindaco rivolge soprattutto ai sostenitori del suo avversario. Quelli che, dovessero cambiare idea, potrebbero dargli la vittoria al ballottaggio. In questa situazione il segretario è spesso costretto a giocare in difesa, barricato nella propria metà campo in attesa che si apra uno spiraglio nel quale infilarsi per giocare il contropiede. Non a caso il primo punto su cui il faccia a faccia si infiamma è quello delle tasse. «Si paga molto - esordisce il leader del Pd - perché non pagano tutti. Bisogna fare la lotta all’evasione e non occorre inventarsi chissà cosa, basta guardare cosa succede nel resto d’Europa dove gira meno contante». La risposta è secca: «Non basta dire lotta all’evasione. Domandiamoci cosa è stato fatto in questi anni? Perché sulla lotta all’evasione fiscale delle responsabilità ce l’abbiamo anche noi del centrosinistra, non quante quelle del centrodestra, ma ce l’abbiamo. Gli strumenti che abbiamo pensato non sono all’altezza». E, come aveva fatto martedì, cita Equitalia spiegando che l’idea dell’agenzia, così come è stata realizzata, fu proprio del centrosinistra. Bersani si agita: «Equitalia non l’abbiamo inventata noi». «Il nostro governo ha dato i poteri ad Equitalia con il decreto Bersani-Visco» controbatte Matteo. E aggiunge: «Pier Luigi è stato 2547 giorni al governo». Da qui in poi, nonostante alcuni punti di sintonia, il canovaccio è sempre lo stesso. Il «rottamatore» affonda sulla politica industriale di questi ultimi 20 anni. Una politica fallimentare che, non lo dice, ha avuto anche il segretario Pd (ministro dell’Industri dal 1996 al 1999 e, poi, dello Sviluppo Economico dal 2006 al 2008) tra i suoi protagonisti. «Abbiamo fatto tutto bene? - domanda - Credo di no. Anche noi abbiamo messo i soldi, ma rinviando il problema nel futuro. Dobbiamo dire che il governo Berlusconi ha deluso? A parte Emilio Fede e Daniela Santanché ha deluso tutti. Ma noi non abbiamo fatto tutto bene, anche perché forse eravamo impegnati a mandare a casa i nostri leader, non il segretario ma le altre forse con cui eravamo alleati (stoccata a Nichi Vendola). Oppure l’abbiamo fatto e gli italiani non se ne sono accorti». Poi la discussione si riaccende quando arrivano le domande sorteggiate tra quelle inviate dai telespettatori. La prima, verrebbe da dire ovviamente, è sui tagli ai costi della politica. Il sindaco parte a razzo: «Io sono per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Per il taglio dei parlamentari e dei vitalizi». Bersani risponde parlando di «dimezzamento» del finanziamento. È l’assist che Renzi aspetta: «Non basta dire dimezzare. Occorre abolire». Ma Pier Luigi non ci sta. Cita Pericle e la nascita della democrazia: «Già allora si pensò ad un sostegno pubblico. Io non mi rassegno all’idea che solo i ricchi possano fare politica». «Ce ne vuole per passare da Pericle a Fiorito - rilancia il sindaco -. Noi non possiamo accettare che, dopo che un referendum ha cancellato il finanziamento pubblico, sia stata fatta una legge sui rimborsi che costano il doppio delle spese sostenute». Altra domanda, altro tema caldo. Il conflitto di interessi. Per Matteo è un rigore a porta vuota: «Quando siamo stati al governo non abbiamo fatto la legge. Io credo che occorra prendere l’impegno che, dovessimo andare al governo, la faremo nei primi 100 giorni. Su alcune vicende abbiamo fatto la figura di quelli che hanno sbagliato». Anche la riforma le pensioni diventa, per il rottamatore, l’occasione per criticare il centrosinistra: «L’abolizione dello scalone per fare contenta una parte della nostra maggioranza è stato un errore». «Io sono contrario agli scaloni - sottolinea con fermezza Bersani - e se ci avessero dato ragione e avessimo pensato a uscite più flessibili (con chi esce prima che prende meno e chi dopo prende di più), ora non saremmo in questa situazione». L’ultimo botta e risposta è sulle alleanze. Renzi chiude la porta in faccia a Vendola e Pier Ferdinando Casini: «A forza di tenere tutti insieme si va a finire come l’Unione nel 2008». «Attenzione a non usare argomenti dell’avversario - è la replica -. Eravamo 12 partiti ma non c’era il Pd, adesso ci siamo e garantiamo all’Europa e al mondo che siamo in condizione di governare. L’ultima volta che abbiamo fatto tutto da soli, ha vinto Berlusconi. Finisce con gli appelli agli elettori. Entrambi assicurano ti essere pronti per il «cambiamento» di cui l’Italia ha bisogno. Chi sarà il più credibile?