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Avio che finisce agli Usa è un rovescio per l'Italia

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Senza strategia È l'ennesima azienda di eccellenza che cediamo all'estero. Senza avere alcun ritorno

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Lasciandoda parte, per il momento, le prime due affermazioni ci ha colpiti la notizia dell'acquisizione della Avio da parte degli americani della General Electrics. Con l'Avio, infatti, parte un'altra società innovativa ricca di brevetti nel settore aeronautico e capace di stare sui mercati internazionali tanto da fatturare lo scorso anno ben 2 miliardi di euro di cui l'80% all'estero con un margine operativo lordo di 380 milioni di euro e con oltre 5 mila dipendenti. La vicenda Avio è l'espressione più tipica del fallimento delle privatizzazioni e del pressappochismo, per non dire altro, della seconda Repubblica. Pochissimi cenni di storia. Nel 1991 la Fiat (leggi Luca di Montezemolo) sollecitò il governo ed il sottoscritto nella qualità di ministro del bilancio perché dessero l'autorizzazione a fondere Fiat-Avio e Alfa-Avio. L'autorizzazione fu negata perché l'Alfa-Avio era già una società innovativa e ricca di brevetti mentre la Fiat-Avio boccheggiava sui mercati internazionali. In parole semplici il settore aeronautico non era quello in cui la Fiat primeggiava e consegnandogli l'Alfa-Avio avremmo destinato quest'ultima ad un destino decadente. Arrivò il cataclisma del '92-'93 e subito dopo l'Alfa-Avio fu messa nelle mani della Fiat. Sette anni dopo e precisamente nel 2003 la Fiat di Montezemolo si arrese e vendette la società Avio, nata dalla fusione, al fondo Carlyle con una quota, però, a Finmeccanica che tornò ad essere, così, il socio industriale di cui c'era bisogno. Tre anni dopo, nel 2006, Carlyle vendette al fondo Cinven l'intera società con l'assenso di Finmeccanica realizzando la bellezza di una plusvalenza di 1 miliardo di euro. Subito dopo l'acquisto, Cinven chiese ed ottenne da questa meravigliosa classe di governo che Finmeccanica ricomprasse di nuovo una quota di Avio perché c'era il solito problema del socio industriale, cioè di quelli che sapevano fare il prodotto. Oggi il fondo Cinven rivende l'Avio alla General Electrics per 3 miliardi e più, facendo così anch'esso una ricca plusvalenza (quasi un miliardo di euro) e la Finmeccanica ne esce definitivamente. Insomma 16 anni di privatizzazione dell'Alfa-Avio son serviti a far fare plusvalenze miliardarie a due fondi di investimento e chissà a chi altri per approdare, poi, alla vendita agli americani. E nel frattempo da un lato il governo e dall'altro la nostra Cassa depositi e prestiti con il suo fondo strategico retto da un finanziere tal Maurizio Tamagnini della nota Merril-Lynch, andata in default e salvata dalla Bank of America, stanno a guardare il passaggio di mano di una grande azienda innovativa come l'Avio mentre acquistano dalla Banca d'Italia il 4 % delle Generali. Ma l'interesse del Paese era più quello di mantenere in mani italiane quel 4 % delle Generali già peraltro controllata saldamente da Mediobanca e da investitori nazionali o quello di recuperare il controllo italiano di un'azienda a tecnologia avanzata e fortemente in utile? La risposta la sanno dare anche i bambini che, però, essendo innocenti non sanno guardare a tutta la vicenda Avio con quella malizia che merita per capire se si è trattato, in questi anni, di stupidità o di altro. Una cosa ci sembra certa. In vent'anni l'Italia ha svenduto aziende pubbliche a mani straniere senza alcuna reciprocità, senza, cioè, garantire quel processo di internazionalizzazione attiva del nostro sistema economico e finanziario avviando, di fatto, il paese a diventare, come spesso diciamo, solo un mercato di consumo e un produttore per conto terzi. È questa la radice del crollo di credibilità e di autorevolezza dell'Italia a fronte di paesi come la Francia e la Germania che hanno tenuto saldamente in mani pubbliche parti importanti del settore produttivo strategico e del sistema finanziario senza che fossero accusati di rigurgiti statalisti. D'altro canto non ci si poteva aspettare altro vista la scomparsa della politica vera e nel contempo la numerosa presenza nei governi di questi anni di consulenti delle grandi e chiacchierate banche d'affari a cominciare dalla Goldman Sachs in un silenzio attonito di un parlamento di dilettanti della politica.

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