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Dalla Cgil a Silvio Io, deluso dal populismo

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Chi scrive si innamora dei governi , soprattutto quando innalzano la bandiera del rigore e non guardano in faccia a nessuno, anche a costo di essere accusati di fare "macelleria sociale". Così, i miei rapporti con la Cgil si logorarono definitivamente ai tempi del primo governo presieduto da Giuliano Amato. Non era sostenibile, infatti, che un segretario confederale lodasse l'azione di un governo contro il quale la sua organizzazione proclamava degli scioperi, accusandolo di smantellare lo Stato sociale (welfare state, quanti delitti in tuo nome!). Uscito dalla Cgil, tuttavia, non avrei mai pensato di abbracciare la causa del Cavaliere se non fosse intervenuta, nel 1994, una riforma delle pensioni a opera del primo esecutivo presieduto da Silvio Berlusconi che colpiva a morte i trattamenti di anzianità, che a mio avviso rappresentavano il mal sottile del nostro sistema previdenziale pubblico. L'aver difeso il Cavaliere mi procurò l'ostracismo del mio "piccolo mondo antico" e l'attenzione del centro destra. Iniziò così un rapporto con le iniziative dei socialisti che si erano ritrovati in Forza Italia (Renato Brunetta, Maurizio Sacconi, Fabrizio Cicchitto e Stefania Craxi), fino a quando l'uccisione di Marco Biagi (di cui ero amico fraterno) cementò ancora di più il nostro sodalizio e ci consegnò una missione da compiere: difendere la sua memoria e consolidare la sua opera. Questo obiettivo sembrò a portata di mano nel 2008. Maurizio Sacconi e Renato Brunetta divennero ministri del Governo Berlusconi, reduce da una sfavillante vittoria; io, eletto alla Camera, mi trovai a essere il punto di riferimento in materia di lavoro e pensioni. Nel ruolo di vice presidente della Commissione Lavoro ho gestito, durante tutta la legislatura, per conto del Pdl, le principali questioni inerenti le mie materie. L'ho fatto con competenza e con serietà, che mi sono state riconosciute da tutti i colleghi e dagli avversari. Pertanto, andandomene, non mi sento debitore di nulla, perché – lo affermo senza falsa modestia – non riesco a individuare tra i deputati del Pdl qualcuno che avrebbe potuto essere alla mia altezza, a reggere la pressione di un gruppo del Pd, competente, impegnato e agguerrito. Poi, quando le vicende della politica hanno portato al governo dei tecnici, è sbocciato un nuovo amore per un esecutivo che, pur tra tanti errori (da me puntualmente criticati), si è incamminato sulla via del rigore con una durezza inusitata, affrontando uno a uno i "mostri" sacri della nostra cattiva coscienza. Tredici mesi or sono, il Paese viveva in una situazione drammatica. La manovra varata a luglio non aveva ottenuto la credibilità dei mercati per tanti motivi. Non solo perché il pareggio di bilancio era stato previsto nel 2014, ma soprattutto perché nella compagine governativa, ormai da mesi, coesistevano due linee: una, coerente con gli obiettivi di risanamento richiesti dall'Unione, impersonata da Giulio Tremonti, colpevolmente delegittimato benché la cui presenza garantisse i mercati; l'altra più attenta alla crescita, mediante la riduzione della pressione fiscale, sostenuta da Berlusconi, fin da quando il Pdl, nella primavera 2011, aveva dovuto subire una pesante sconfitta nelle elezioni amministrative. Al dunque, il sempre più marcato dissenso tra il premier e il titolare dell'Economia aveva inciso sulla considerazione dell'Italia sui mercati e tra i partner al pari degli effetti riguardanti la vita personale del Cav. Durante tutto il mese di agosto, nonostante il severo richiamo della Bce con la lettera del giorno 5, era esploso, nella maggioranza, un dibattito tra diversi esponenti del Pdl e tra questo partito e la Lega Nord, rendendo molto problematica la chiusura della manovra correttiva. La vicenda delle pensioni di anzianità contrassegnò emblematicamente lo stato di impotenza a cui erano giunti l'esecutivo e la maggioranza. Alla fine vennero meno alla Camera anche i numeri di una coalizione che da mesi si era retta grazie alla distribuzione di sottosegretariati. A quel punto era evidente che la campagna per far cadere Berlusconi aveva avuto successo: il Governo era ormai inchiodato al banco degli imputati, ritenuto primo responsabile di tutto quanto, in quei frangenti critici, sarebbe potuto accadere al nostro Paese. Ancora una volta Silvio Berlusconi dimostrò una lungimiranza non comune, contenendo le tensioni disfattiste e suicide che, nel partito, chiedevano le elezioni anticipate e consentendo il varo del Governo Monti, a cui non è mai venuto a mancare l'appoggio del Pdl, fino al 6 e 7 dicembre scorsi. Negli ultimi mesi, il Governo Monti aveva perso gran parte della spinta propulsiva, ma, dalla sua, conservava un importante vantaggio: quello di garantire (perché ne è il mandatario) un linea di condotta coerente con l'obiettivo del risanamento dei conti pubblici in armonia con le indicazioni dell'Unione. Chi scrive è convinto che l'Europa e l'euro, non l'Imu, saranno le discriminanti vere delle prossime elezioni e della scelta di campo delle forze politiche. Bersani e Vendola proporranno un'"altra" Europa, che non esiste. Come avrebbero potuto i mercati fidarsi di un Parlamento che esprimerà una maggioranza contraria a quanto è stato deciso a livello europeo fino ad ora? Il Pdl, membro del Partito popolare europeo, aveva davanti a sé – ma l'ha gettata alle ortiche - una strada spianata se si fosse qualificato come il partito dell'Unione e dell'euro. Invece, ecco una politica che racconta agli elettori quanto crede che loro vogliono sentirsi dire. Che cosa altro è il populismo?

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