di Marlowe Quante divisioni ha Mario Monti? La famosa e sprezzante domanda di Stalin («Il Papa mi condanna? Quante divisioni ha?») si staglia già nelle esternazioni di Pier Luigi Bersani e di Silvio Berlusconi.
IlCavaliere invece teme che Monti si riduca ad essere «un piccolo protagonista della politica», lamenta di non aver ricevuto neppure una telefonata dopo che gli aveva offerto il Pdl, e inevitabilmente si trova costretto a «ripensarci lui»: chi l'avrebbe mai detto. Ma questo, purtroppo per Monti e per i suoi fan, è solo il fuoco di sbarramento preventivo. L'artiglieria pesante seguirà, e con essa l'aviazione, i droni, i commando, le intelligence. Giacché il vecchio centrodestra e il vecchio centrosinistra hanno un unico, solo convergente interesse: continuare a combattersi sul terreno di sempre, quello delle ideologie e non delle idee, a suon di slogan e promesse, cosa che consente a tutti e due di svicolare dall'obbligo di mantenere gli impegni e di misurarli con la realtà italiana, europea, mondiale. La politica, secondo questo schema, come «variabile indipendente»; tipo il salario ai tempi del sindacalismo d'assalto anni Sessanta, che portò alla prima crisi economica dell'Italia ed al primo patatrac dello stesso sindacalismo. E quindi la domanda sulle divisioni di Monti non solo è legittima, ma urgente per Monti stesso. Se il Professore non vuole davvero condannarsi ad una sconfitta annunciata, ad una mera testimonianza che sarebbe non solo sua ma anche del Paese e di ogni tentativo di innovare il sistema politico. Quante divisioni. L'imprimatur del Ppe. Gli applausi della stampa internazionale. L'establishment accademico e imprenditoriale. Larghi settori della Chiesa delusi dal Cavaliere. Le Acli e Comunione e Liberazione, sospettose per il laicismo retrò della sinistra vendoliana. Il mondo che ruota intorno alla Comunità di Sant'Egidio, un potere più noto all'estero ma ben presente anche in Italia. Il sindacato riformista stufo della Cgil. Un imprenditore come Sergio Marchionne, l'unico vero manager dell'industria privata italiana che abbia il coraggio di mettersi personalmente in gioco sui mercati mondiali, e di rompere piatti e piattini dei salotti confindustriali-concertativi nazionali. Ma anche altri singoli esponenti dell'industria e della Confindustria, che non hanno voglia o interesse ad esporsi per ora contro il quartier generale. Quelli del Pdl delusi da Berlusconi e quelli del Pd insofferenti del centralismo democratico all'emiliana. Questo è sostanzialmente il progetto Monti riunito intorno alla sua agenda. Detto altrimenti, si tratta né più né meno di una classe dirigente, quale forse l'Italia non ha mai conosciuto finora. Si è tirata in ballo una Dc 2.0, paragone suggestivo ma che non fa al caso nostro. La Dc aveva in comune con il montismo due cose: l'interclassismo e l'europeismo instillato da Alcide De Gasperi, Jean Monnet, Konrad Adenauer, Robert Schuman, e giù giù fino a Helmut Kohl. Ma al proprio interno la Democrazia cristiana aveva anche il rifiuto intrinseco del liberalesimo, mutuato questo da Luigi Sturzo, la dottrina dello Stato assistenziale e onnicomprensivo, quest'altro in comune con il Pci. Perciò la Dc, come anche il Pci, ebbero oltre a dei leader anche due popoli. E quindi militanti, e quindi voti. Cosa che Monti al momento non ha. Quale campo di battaglia. Dimenticate l'Europa, lo spread, le ricette economiche, tutte più o meno vaghe, con le quali Bersani e Berlusconi vi bombarderanno nei prossimi due mesi. Il vero campo di battaglia, le vere trincee del vecchio centrosinistra e del vecchio centrodestra si chiama legge elettorale. Il Porcellum. Confezionato su misura non solo per due coalizioni ma per due modi di pensare «o di qua o di là», nel quale l'avversario era e resta un nemico, il Porcellum è stato non per nulla gelosamente mantenuto sia dal Pd sia dal Pdl. Il che può apparire sorprendente se non altro dal punto di vista del Cavaliere che i sondaggi destinano alla sconfitta. Al contrario fa comodo a tutti: ai vincitori che si prendono, e gratis, il premio di maggioranza; ed anche ai perdenti che possono mirare a vivere di rendita con i seggi attributi agli sconfitti. E magari esercitare un proficuo potere d'interdizione al Senato. Il Porcellum garantisce infatti 340 seggi alla Camera alla coalizione prima piazzata, indipendentemente da quale percentuale raggiunga: una anomalia segnalata dalla Corte Costituzionale ma alla quale non si è voluto rimediare. Al Senato invece il Porcellum è regionalizzato: tanti premi di maggioranza per ogni regione a statuto ordinario (tranne il Molise), e gli sconfitti a dividersi i seggi residui. Che si riducono quante sono le coalizioni ed i partiti a spartirsi la torta. Questo sistema è andato bene, anzi benissimo, non solo a Bersani e Berlusconi, ma anche a Beppe Grillo, il quale non aspira a governare, ma a protestare. È invece deleterio per Monti e il montismo, che scendono in campo dal nulla con il dichiarato proposito di garantire all'Italia continuità e stabilità di governo. A meno che il Professore non si affretti ad addestrare le proprie truppe e strategie al teatro di guerra. Voti che si contano e non si pesano. In altri termini, il Porcellum fa vincere la Camera a chi prende un voto, un voto solo in più. È a questo che si è riferito Giorgio Napolitano quando ha detto che stavolta avrebbe, «suo malgrado», attribuito l'incarico di governo sulla base dei numeri che usciranno dalle urne. Il che spazza via ogni ipotesi non solo di esecutivo tecnico, ma anche di minoranza o di mero equilibrio tra le forze in campo. Perfino se il Pd e Vendola non riuscissero a conquistare il Senato, l'incarico andrebbe a Bersani e toccherebbe a lui convincere qualche altra forza, o qualche altro singolo parlamentare, ad unirsi ai suoi. E non è detto che la trattativa si svolga alla luce del sole. Ma se anche tutto accadesse in maniera cristallina, un Pd vincitore che cosa potrebbe offrire ad un Monti secondo o terzo classificato? Il Quirinale? Una totale incognita. Il ministero dell'Economia? Prima dovrebbe però buttare fuori Vendola e la Cgil. Conclusione: questo campo di battaglia Monti e i suoi dovranno studiarselo bene. E pur di malavoglia, dotarsi delle truppe adatte ad un simile territorio. Alle quali far svolgere il lavoro «dietro le linee», quello oscuro e sporco ma necessario. Stati in bilico. Come nelle presidenziali Usa, per impedire la vittoria del Pd al Senato e per conquistare il maggior numero di seggi, saranno cruciali quattro regioni, equiparabili agli swing states americani. Si tratta di Lombardia, Veneto, Sicilia e a questo punto forse anche Lazio. Al Nord-Est l'appeal della sinistra resta basso, quello del Pdl-Lega è in declino, Monti potrebbe costituire una chance per i delusi. La Sicilia è tradizionalmente a disposizione di chi (eufemismo) fa presa sul territorio: l'Udc è particolarmente attrezzato, ed inoltre il Pd subirà anche la concorrenza del centrodestra e di Beppe Grillo, la cui lista è stata la prima alle ultime regionali. Discorso diverso per il Lazio. Regione altalenante a tutte le ultime consultazioni, nazionali e locali, ospita interessi cospicui e legittimi di matrice cattolica e sindacale moderata. Finora tutti i sondaggi hanno assegnato il Lazio alla sinistra, ma con Monti la battaglia potrebbe prendere una piega diversa. Il Lazio assegna 15 seggi a chi vince e 12 da ripartire tra gli sconfitti. Se il terzo polo montiano vincerà il Lazio o avrà un buon risultato, i seggi al Senato conquistati dalla sinistra potrebbero ridursi a 140 rispetto ai 157 necessari per governare. Uno scarto troppo ampio per tentare manovre di corridoio. Strategia di vittoria. In questo caso ogni eventuale trattativa fra la coalizione vittoriosa (finora abbiamo ipotizzato che sia il centrosinistra) e Monti dovrà avvenire alla luce del sole e con pari dignità. Il che darà al premier uscente il potere contrattuale per segnare anche il prossimo governo e la prossima legislatura. Ma il Pd perderà appunto quasi certamente Vendola, rischierà la spaccatura interna, e dunque è possibile, anzi probabile che questa legislatura durerà poco e si tornerà di nuovo alle urne. Stavolta però con un Monti più strategico, più rodato alla politica, e magari con la sponda di un centrodestra diverso, una volta che il Cavaliere avrà sparato la sua ultima raffica. Una legislatura breve non sarà un dramma, se le forze politiche, le istituzioni e infine l'Europa ed i mercati afferrano l'occasione trasformando l'instabilità in stabilità, e la frantumazione in una opportunità per rinnovare davvero la politica italiana. Ecco perché Monti deve concepire fin da ora una strategia di vittoria. Preparandosi ad affrontare i faccia a faccia, i taccuini di ogni singolo giornalista, a stringere le famose mani sudate, a non disdegnare la propaganda, perfino a servirsi di chi, in suo nome, si sporca le scarpe. Come fanno del resto Obama, la Merkel, Hollande. Come hanno fatto Margaret Thatcher e Tony Blair quando, prima ancora di Downing Street, hanno sgominato la vecchia guardia del Partito conservatore e del Labour: conquistandoli dall'interno, a costo di amarezze, colpi bassi, attese con il bicchiere di whisky. Ma mutando davvero la faccia dell'Inghilterra e del mondo.