Pd terrorizzato dalla «tentazione» di Monti
Unatentazione che ha fatto il miracolo, fra l'altro, di indurre un laico impenitente come Eugenio Scalfari a recitare ieri metaforicamente con i suoi lettori una versione tutta politica della preghiera più famosa dei cristiani. È quella del «Padre nostro», in cui i credenti Gli chiedono di non indurli appunto in tentazione, anche se quello del tentatore è il mestiere del diavolo. Come lo stesso Scalfari ha puntigliosamente ricordato. L'idea che Monti possa compromettere il sogno della vittoria elettorale di Pier Luigi Bersani ha fatto scoprire dalle parti del Pd l'utilità di uno scenario ipotizzato all'inizio della campagna per le primarie del cosiddetto centrosinistra da quello strano e sospetto concorrente che fu subito considerato Renzi. Il quale disse, in particolare, che se mai gli fosse capitato di vincerle quelle primarie, e poi di vincere anche le elezioni politiche vere e proprie, quelle che Bersani chiama un po' ironicamente «secondarie», egli avrebbe potuto accontentarsi di tenere in mano «il pallino». Senza poi reclamare la nomina a presidente del Consiglio, per lasciare a Monti il compito di completare in uno o due anni a Palazzo Chigi l'opera di risanamento economico cominciato come tecnico, guidando però stavolta un governo politico. Il povero Renzi venne scambiato anche per questo nel suo partito per un pazzo, un autolesionista, un infiltrato delle banche e quant'altro. Tanto che il giovanotto si rassegnò opportunisticamente a precisare prima e a smentire poi, finendo per allinearsi a Bersani, Nichi Vendola e compagni, tutti impegnati a dare per finita con le elezioni l'esperienza di Monti a Palazzo Chigi. E a fare spallucce a quel «Monti dopo Monti» predicato da Pier Ferdinando Casini fra un corteggiamento e l'altro di e da Bersani, come il moderato con cui potersi o doversi alleare dopo le elezioni. Dalle parti della Repubblica, quella di Scalfari, e della segreteria del Pd, non volendo dare a Renzi quello che gli spetterebbe, il riconoscimento cioè della primogenitura di un simile scenario, sono andati a scomodare il precedente della «staffetta» pensata nel 1986 dall'allora segretario della Dc Ciriaco De Mita per rimuovere l'anno dopo l'odiato Bettino Craxi da Palazzo Chigi e sostituirlo con un democristiano doc come Giulio Andreotti. Ma non se ne fece nulla perché, a crisi aperta un po' anche con le brutte, Craxi si accorse che De Mita voleva che Andreotti gli succedesse non per governare nell'anno residuo e più scomodo o rischioso della legislatura, ma semplicemente per andare alle elezioni anticipate. «Staffetta un corno», gridò Bettino reclamando inutilmente il diritto di gestire lui le elezioni del 1987. Cosa alla quale invece De Mita chiese ed ottenne dall'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga che provvedesse Amintore Fanfani, scomodato per questo dalla postazione di presidente del Senato. Memore forse di questo non confortante precedente, Scalfari ieri ha evitato di condividere l'immagine e la proposta della staffetta, preferita invece nella cronaca politica del suo giornale per conciliare le ambizioni di Monti a rimanere e di Bersani a succedergli a Palazzo Chigi. Egli ha preferito un altro furto d'autore, chiamiamolo così. Ha sostenuto un più generico ma anche più storico accordo fra i due, auspicando l'aiuto di Giorgio Napolitano nello scorcio ormai del suo mandato presidenziale, per replicare l'intesa tra Aldo Moro ed Enrico Berlinguer nella lontana stagione della cosiddetta solidarietà nazionale. Che fu anch'essa caratterizzata dall'emergenza, derivata quella volta anche dal terrorismo, e non solo dalla crisi economica e da un risultato elettorale- quello del 1976- che aveva assicurato alla Dc una vittoria mutilata, non traducibile in una maggioranza parlamentare autosufficiente. Che è un po' quello che potrebbe accadere al Pd di Bersani alle prossime elezioni per effetto proprio di una partecipazione di Monti alla competizione. Anche Scalfari tuttavia ha finito per compiere un errore di memoria nel suo furto d'autore quando ha scritto che l'intesa tra Moro e Berlinguer, tradottasi nell'appoggio dei comunisti ad un governo interamente democristiano presieduto da Andreotti, fu costruita su basi tanto solide da sopravvivere, anzi da «rafforzarsi» dopo la tragica fine del povero Moro, rapito e poi ucciso dalle brigate rosse nel 1978. Scherziamo? Altro che rafforzarsi, alla tragica fine del presidente della Dc quell'intesa sopravvisse solo per sette mesi, tanto poco solide erano evidentemente le sue fondamenta. Un'esperienza, quindi, ben poco augurabile, sotto tutti gli aspetti, anche quello fisico, a Monti. O a Bersani, come preferite. Lo spettacolo delle contorsioni non migliora di certo a destra di fronte alla prospettiva di una partecipazione del presidente del Consiglio alla ormai imminente campagna elettorale. Di cui Napolitano ha voluto ieri sondare personalmente la consistenza, cercando forse di scoraggiarla, ma senza riuscirci, visto che ha invitato i giornalisti curiosi di conoscere l'esito dell'incontro appena avuto con Monti al Quirinale di rivolgersi direttamente a lui. Che si è limitato ad augurare buon Natale a tutti. Ma proprio a tutti: a distanza, anche a chi a destra non riesce ad uscire, per quanti convegni di area o simili si siano incrociati, e siano forse ancora in arrivo, dalle stridenti contraddizioni in cui si sono cacciati nel Pdl: prima ritirando la fiducia a Monti nelle aule parlamentari e poi sollecitandolo a diventare il «federatore» dei moderati, prima garantendogli in questo caso un vero passo indietro di Berlusconi e poi continuando a coltivare un progetto di alleanza con un partito ormai antitetico a Monti come la Lega.