Pd e Pdl «senza famiglia» in Europa
LaBanca d'Italia ha comunicato che il debito pubblico italiano ha superato i 2 mila miliardi di euro. È il livello più alto mai raggiunto, superiore di 71,2 miliardi al dicembre 2011. In percentuale un incremento del 3,5 per cento, neppure un'enormità: nel 2010 la Germania aumentò il debito di 319 miliardi; la Francia nel 2011 di oltre 90. Ma come è noto il nostro debito si confronta con un Pil in declino ben superiore al due per cento. Per questo a fine anno sarà certificato un rapporto tra debito e ricchezza prodotta intorno al 126,6%, mentre lo scorso anno fu del 120,1. Dunque mentre in cifra assoluta aumentiamo di 3,5 punti percentuali, rispetto al Pil siamo quasi al doppio. È in questo scarto che sta tutto l'handicap rispetto al resto d'Europa. Lo spread: siamo intorno ai 320-330 punti, una quota di relativa sicurezza rispetto ai 500 e oltre lasciati in eredità dal governo di Silvio Berlusconi (complotti o non complotti) ma certo ben distanti dai 120 del giugno 2011, sempre con il Cavaliere, e dai 200 che per Bankitalia dovrebbero essere il nostro target naturale. A parziale consolazione bisogna aggiungere che lo spread, misurando la differenza di rendimento tra i Btp decennali italiani ed i corrispondenti Bund tedeschi, si amplia anche e soprattutto perché da tempo questi ultimi offrono rendimenti minimi: a inizio anno il Bund decennale tedesco pagava l'1,83%, venerdì scorso l'1,35. Come è stranoto Berlino è riuscito a far diventare i propri titoli pubblici un bene-rifugio, al punto che per quelli da due anni in giù gli investitori si accontentano di tassi negativi, cioè di avere indietro meno di quanto versano. Il che, aggiungendoci l'inflazione, significa di fatto prestare soldi ma pagando al debitore il tre per cento l'anno. In questo modo i tedeschi riescono a finanziare il credito al consumo a beneficio delle aziende sbaragliando la concorrenza estera oltre il valore aggiunto della qualità: gli interessi sulle rate Volkswagen sono meno di un terzo di Fiat e Peugeot. Fin qui sembrerebbe una situazione senza via di scampo e tale da dare ragione ai critici più strenui del governo Monti. Invece c'è un terzo indicatore che vale più degli altri due, perché anziché fotografare l'esistente si proietta sul futuro a breve, medio e lungo termine. Parliamo dei tassi d'interesse. L'asta di Btp triennali di giovedì 13, nonostante le turbolenze politiche, ha registrato tassi in calo al 2,5 per cento, ai minimi dall'ottobre 2010. Si tratta di 5,39 punti in meno di un anno fa: allora per indebitarsi a breve-medio periodo l'Italia doveva pagare i triplo di adesso. Sul mercato secondario, che prende il polso degli investitori in tempo reale, la situazione è ancora migliore. Il rendimento dei Btp triennali è al 2,4 per cento, dei biennali al 2,04, dei quinquennali al 3,4, dei decennali al 4,6. Ciò significa che, se riusciamo a difendere questa trincea, il nostro debito nonostante la cifra-monstre di 2 mila miliardi di euro torna sostenibile. In pratica, i mercati riprenderanno a prestarci soldi non a condizioni da usura come dodici mesi fa, quando perfino i Bot a un anno richiesero un pedaggio superiore al 6 per cento. Oggi a 12 mesi il Tesoro paga l'1,45: il 40 per cento in meno. Nessun altro paese europeo ha registrato nel 2012 performance simili: non la Germania, i cui tassi a due anni si sono ridotti del 20 per cento nonostante l'effetto bene-rifugio, e quelli a dieci del 25 per cento. Non la Francia, che sui dieci anni risparmia il 35. Non solo. Sommando alle cedole il capital gain, cioè l'aumento del prezzo di mercato, chi ha investito nei momenti bui o per speculazione o per fiducia in Monti oggi si trova in portafoglio il 19,65 in più sulle varie scadenze, e in un solo anno. In Germania il guadagno e del 4 per cento, in Francia del 9,9, in Spagna del 5,1. Fatto ancora più rilevante, dopo Ferragosto sono tornati a comprare titoli italiani gli investitori stranieri: escludendo gli acquisti della Bce e di fondi basati solo nominalmente all'estero, l'incremento è di 11 miliardi tra agosto e settembre, e si sta accentuando. Questo significa che su uno stock di 1.666 miliardi tra Btp, Cct, Ctz e Bot, la quota in mano a investitori esteri che si era ridotta al 25 per cento, dal 46 di fine 2010, sta tornando a risalire. Il che se da una parte rende il nostro debito più esposto alla valutazione dei mercati internazionali, dall'altro costituisce un segnale di fiducia non smentibile. Sappiamo benissimo che esiste un filone di pensiero che ritiene più sicuro un debito pubblico interamente in mani domestiche, come quello giapponese. Ma questo vale se il mercato interno è davvero in condizioni di sostenere il debito; e non è la situazione dell'Italia. Nella mole di statistiche di fine anno è particolarmente allarmante quella della Banca d'Italia sulla ricchezza delle famiglie: il patrimonio netto si è ridotto di quasi il 6 per cento, tornando ai livelli degli anni Novanta, una contrazione che ha riguardato i beni investiti sia in abitazioni sia in strumenti finanziari, nonché il risparmio netto. Questa sfilza di numeri e percentuali è solo apparentemente arida e fine a se stessa. Infatti essa è la bussola per capire a che punto siamo nella burrasca politica, e le rotte sulle quali ci troveremo a scegliere il 17 febbraio. Salvo sorprese, si tratterà del proseguimento dell'esperienza Monti; di un centrodestra a giorni alterni antieuropeo o filoeuropeo; di una sinistra che non riesce ad affrancarsi dall'imprinting e dalle antico massimalismo. Ecco perché il vertice del Ppe ha chiamato Mario Monti, una vera investitura di significato non solo elettorale, ma anche economico e sociale. Il Ppe è portatore di una ricetta - appunto l'economia sociale di mercato - che prevede in primo luogo di subordinare la pressione fiscale al contenimento della spesa pubblica, e in secondo di finalizzare alla competitività i miglioramenti salariali e normativi. L'altra grande famiglia politica europea è quella socialdemocratica, rappresentata a Strasburgo dal Pse. La sua ricetta richiede spesa pubblica sostenuta dalle tasse, mentre sul lavoro le differenze sono ormai minime. I potenti sindacati tedeschi hanno accettato le riforme di produttività volute dal socialdemocratico Gerhard Schroeder, i cui frutti sono stati raccolti da Angela Merkel. Così come Tony Blair aveva proseguito molto del lavoro di Margaret Thatcher, trasformando il vecchio e bollito Labour Party in un New Labour che ha cambiato i connotati della socialdemocrazia mondiale. Infine entrambi - popolari e socialdemocratici europei - hanno da tempo sepolto i totem dell'ideologia a vantaggio delle idee, tanto più se nuove. E in Italia? Dopo un po' di anticamera, Berlusconi e i suoi movimenti (Forza Italia, il Pdl dopo) sono stati accolti nel Ppe. A propiziarne l'ingresso fu l'ex premier spagnolo Josè Maria Aznar, in buoni rapporti sia con il Cavaliere sia con la Cdu tedesca. Invece la sinistra italiana, nonostante l'europeismo di Romano Prodi, non ha ancora aderito al Pse. Glielo hanno impedito le sue varie anime: ex popolari, ex liberali, ex radicali, e soprattutto ex comunisti. Foto di un gruppo ancora legato al passato e che non ha ancora trovato un futuro. Il Pd ha con il Pse un accordo di collaborazione e consultazione, l'Alleanza dei progressisti e dei democratici europei. Alla Sinistra unitaria europea aderisce invece la componente di maggioranza del Sel di Nichi Vendola, cioè gli ex comunisti. Gli altri vendoliani stanno con i Verdi europei, la pattuglia socialista con il Pse. Dopo le ultime esternazioni berlusconiane la collocazione nel Ppe del Pdl o di parte di esso è in bilico. Mentre quella del Pd tra le socialdemocrazie europee non è mai effettivamente avvenuta. Il risultato è esattamente ciò che vediamo in questi giorni: tra un Cavaliere al galoppo verso il complottismo anti-Europa da una parte, ed un Pd a trazione Bersani-Vendola dall'altra, l'Italia rischia di non essere riconosciuta da nessuna delle due famiglie politiche del continente: né pienamente e convintamente popolare, né pienamente e convintamente socialdemocratica. Per di più se Berlusconi si rifugia nel vecchio anticomunismo, Bersani gli dà ragione con il mai rinnegato metodo del «nessun nemico a sinistra», e l'alleanza con Vendola ne è solo un tratto. Due regressioni dalla realtà che non promettono alcunché di buono per il governo che il prossimo anno dovrà gestire 388 miliardi di aste di titoli di Stato e porsi l'obiettivo strategico di ridurre 800 miliardi di spesa pubblica, per oltre il 90% costituito dal puro mantenimento dell'apparato statale. Ecco perché l'Europa guarda a Monti, ed ecco perché il Ppe lo vuole nel proprio alveo senza che i socialdemocratici europei lo ritengano un avversario né tantomeno lo sottopongano a scomunica; anzi. Come invece avviene da noi quando si parte in quarta per la campagna elettorale all'insegna sempre delle ideologie, e mai delle idee. Le ideologie, che hanno devastato l'Europa nel secolo scorso, sembrano resistere soltanto in Italia impedendo a un'intera classe politica di diventare classe dirigente europea. Il che significa, certo, anche interloquire con i mercati, con le banche, con le imprese ed i sindacati, e infine con i signori dello spread: ma di farlo secondo regole riconosciute e accettate da tutti. E come tali le valuta il resto del mondo, banche e governi. Volete una controprova? L'Italia è forse l'unico paese evoluto nel quale le liste elettorali inalberano un nome. Altrove ci sono socialisti, popolari, conservatori, laburisti, socialdemocratici, gollisti; e la forma non cambia ad ogni chiamata alle urne; caso mai si rinnova. Qui abbiamo le liste Berlusconi, Bersani, Prodi, Di Pietro, Grillo, Casini. Quasi fossero i nostri signori della guerra.