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Ormai non ci sono più dubbi: tra il governo e il Pdl è guerra aperta.

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Lariforma messa a punto dall'esecutivo, in discussione al Senato, è una di quelle che, con una fine anticipata della legislatura, rischia di non andare in porto. A maggior ragione che sabato, mentre il Professore si trovava a colloquio con Giorgio Napolitano, il capogruppo del Pdl a Palazzo Madama Maurizio Gasparri aveva annunciato che il suo partito stava valutando la possibilità di presentare una pregiudiziale di costituzionalità. La risposta del ministro della Pubblica amministrazione e per la semplificazione Filippo Patroni Griffi non si è fatta attendere: «A questo punto e nella situazione che si è creata, spetta solo alle forze politiche decidere se portare avanti e concludere il riordino delle Province o se arrestare il processo». «Il governo - prosegue - non potrà che prenderne atto, come dovrà attentamente valutare la presentazione di una pregiudiziale da parte di un partito di maggioranza e le conseguenze di ciò sull'ulteriore iter della legge di conversione». Che tradotto vuol dire: con la pregiudiziale il governo potrebbe decidere di ritirare il testo. Anche perché, a quel punto, l'approvazione in tempi brevi sarebbe impossibile. In ogni caso Patroni Griffi ci tiene a sottolineare che «l'eventuale mancata conversione del decreto determina certamente una serie di problemi». Problemi che il dipartimento Riforme del ministero ha elencato in uno studio inviato ad alcuni senatori. Il primo è la creazione di una «situazione di caos istituzionale». Secondo i tecnici, ad esempio, senza l'approvazione del decreto le città metropolitane resterebbero «istituite solo sulla carta e la loro operatività sarebbe ostacolata da una serie di fattori» (dalle incertezze sui rapporti tra sindaco del comune capoluogo e quello metropolitano, a quelle sui rapporti patrimoniali e finanziari). Non solo, ma la bocciatura rappresenterebbe un sostanziale ritorno al decreto Salva Italia e questo significa che: «i perimetri e le dimensioni delle province restano quelli attuali»; «viene meno l'individuazione delle funzioni di "area vasta" come funzioni fondamentali delle province». Questo obbligherà le Regioni ad emanare entro fine anno «leggi per riallocare le funzioni tra comuni e Regioni medesime». Cosa che «comporterà tendenzialmente la devoluzione delle funzioni alle Regioni con conseguente lievitazione dei costi per il personale e la probabile di costose agenzie e società strumentali». Insomma, al posto dei risparmi un aumento dei costi. Ma i punti più delicati sono sicuramente: l'incertezza che si creerà sulla gestione di alcuni servizi «fondamentali per i cittadini (come manutenzione di scuole superiori e strade, gestione rifiuti, tutela idreologica e ambientale)» e la «questione finaziaria legata ai mutui contratti dalle Province». Senza contare i problemi per «il traferimento del persone, dei finanziamenti, dei beni immobili» e sulla «riorganizzazione degli uffici periferici dello Stato». Uno scenario quasi da incubo che genera reazioni contrastanti. Per il presidente dell'Unione Province Italiane Antonio Saitta l'allarme del ministero mostra che «le Province hanno un ruolo indispensabile nel sistema istituzionale del Paese». Mentre il relatore del decreto, il senatore Pdl Filippo Saltamartini, invitando il governo a dimostrare «con i dati quali sono i risparmi che la riforma comporterebbe», avverte: «Se va a finire che diventiamo il caprio espiatorio della situazione, a quel punto valuteremo che posizione prendere. Dovremo fare una valutazione politica». Lo scontro, forse, è scongiurato.

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