Statali a dieta sui buoni pasto
Aidipendenti statali sotto l'incubo della spending review del governo, che gli ha già tagliato la possibilità di usare il telefono dell'ufficio per chiamare cellulari e fare interurbane, ora tocca anche mettersi a fare i conti su quanto inciderà sul bilancio familiare il ritocco – ovviamente verso il basso – dei ticket per andare a pranzare. Un taglio anche all'immaginario collettivo, a quel piccolo momento di gratificazione sociale che è il fare sfoggio del proprio buono davanti a chi non lo ha o a chi lo possiede di valore più basso. Il buono-pasto è la «rivoluzione» che ha preso piede nelle aziende, pubbliche e private, alla fine degli anni '80 come forma di integrativo o di bonus per i dipendenti e che ha soppiantato rapidamente tutte le mense aziendali, ormai troppo costose. Molto più conveniente la distribuzione dei buoni con cui impiegati e dirigenti possono gestire in modo autonomo la pausa pranzo. Ora nella pubblica amministrazione il Governo vuole «limare» un po' le tariffe, portando tutti quanti al tetto di 5,29 euro contro la media dei 7 attuali. Una cifra non casuale perché è l'importo massimo sul quale le società non pagano le tasse. Oltre quella cifra l'azienda – o la pubblica amministrazione – è tenuta a versare comunque una parte al fisco. La decisione di livellare tutto in basso, prima di far infuriare i sindacati, ha però messo in allarme proprio l'associazione delle società emettitrici di buoni pasto, l'Anseb, aderente alla Fipe-Confcommercio. Che ha accusato il governo di voler «affamare» i dipendenti. «Ridurre l'importo per i dipendenti pubblici a 5,29 euro, cioè la soglia massima esentasse – ha commentato il presidente dell'associazione, Franco Tumino – significa tornare al valore di acquisto di 15 anni fa e quindi togliere fisicamente il pane dalla bocca a tanti lavoratori senza far risparmiare in maniera significativa lo Stato». E per dare peso e sostanza alla sua affermazione ha anche riportato i risultati di un recente studio firmato dalla Bocconi dal quale emerge che il valore minimo attualizzato del buono pasto dovrebbe essere di otto euro. «Cifra che – ha proseguito – permetterebbe di innalzare la soglia esentasse senza gravare sulla spesa pubblica, a patto che lo strumento venga usato secondo la sua originaria destinazione, ossia per spese alimentari». Mentre spesso viene utilizzato per acquisti in negozi di ogni tipo. Ma per il presidente dell'Anseb il taglio dei ticket è anche controproducente per la lotta all'evasione fiscale: «Ci meravigliamo come lo Stato pensi di ridurre l'importo di uno dei pochi strumenti di pagamento interamente tracciabili dall'inizio alla fine della filiera». Alle proteste si associa anche il presidente della Fipe-Confcommercio, Lino Stoppani: «Ridurre di due euro l'importo del buono pasto per i dipendenti pubblici nel momento in cui l'indice di fiducia dei consumatori è al minimo storico, come testimoniato dagli ultimi dati Istat, significa contrarre ulteriormente i consumi e penalizzare le famiglie. Oltretutto si tratta proprio di risorse destinate esclusivamente all'alimentazione». Il buono, sostiene Stoppani, «è la garanzia del pasto quotidiano del lavoratore. Dovremmo migliorare questo strumento anziché depotenziarlo. Buona cosa sarebbe prevedere misure che facciano rientrare la spendibilità del ticket nei pubblici esercizi nella misura di uno al giorno, evitando passaggi di mano da parte dei lavoratori e soprattutto utilizzi per spese diverse da quelle alimentari di immediato consumo». Se infatti il buono pasto tornasse ad essere utilizzato nella rete di pubblici esercizi, conclude Lino Stoppani, «si metterebbe fine una volta per tutte alle storture e agli utilizzi impropri che creano anche danni alle casse dello Stato». Da palazzo Chigi, però, minimizzano sulla portata dell'intervento. L'operazione, spiegano, serve solo ad uniformare il prezzo dei buoni pasto all'interno della pubblica amministrazione perché ci sono casi di alcuni settori che hanno ticket di valore sproporzionato rispetto alle reali esigenze. Insomma una vera e propria «foresta» con picchi ingiustificati verso l'alto e sui quali l'esecutivo è deciso a fare un po' di ordine. Mettendo in cassa, allo stesso tempo, un po' di risparmi.