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Ora Pier Luigi «divorzi» da Tonino

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Neanche gli attacchi dell'ex pm al Colle sembrano far vacillare le nozze Pd-Idv

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Delquale ieri è arrivato a denunciare «la coda di paglia» avendo osato rispondere direttamente agli attacchi suoi, e di altri critici, per l'ascolto ottenuto al Quirinale dalle proteste e preoccupazioni di Nicola Mancino. Che è l'ex ministro dell'Interno, nonché ex presidente del Senato ed ex vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, finito come falso testimone, sinora, nelle indagini della Procura di Palermo appena concluse sulle presunte trattative svoltesi fra il 1992 e il 1993 fra lo Stato e la mafia stragista. Indagini nei cui faldoni il coordinatore Antonio Ingroia, lo stesso peraltro incorso di recente nella censura del Consiglio Superiore della Magistratura presieduto da Napolitano per un intervento a un congresso di partito, ha ritenuto di dovere mettere anche le registrazioni delle telefonate intercorse fra Mancino e il consigliere giuridico del capo dello Stato. Di questo consigliere, e forse anche del segretario generale del Quirinale, autore di una lettera inviata nell'aprile scorso al procuratore generale della Cassazione per porgli il problema del necessario coordinamento fra le indagini condotte sugli stessi fatti, ma con valutazioni diverse, sia dalla Procura di Palermo sia da quelle di Caltanisetta e di Firenze, i critici di Napolitano chiedono sempre più insistentemente la testa. Ciò potrebbe forse servire, secondo loro, a smetterla di attaccare direttamente il presidente della Repubblica, considerandolo benevolmente "inconsapevole" dei tentativi dei suoi collaboratori di interferire nelle indagini giudiziarie sui fatti tanto gravi di una ventina d'anni fa. Tanto gravi - aggiunge di suo Di Pietro - che non basterebbero più le inchieste dei magistrati. Ne occorrerebbe una parlamentare, dove le carte, cartucce e varie riguardanti i collaboratori di Napolitano, e lo stesso Napolitano se questi dovesse continuare a difenderli, e a fidarsene, potrebbero naturalmente trovare spazio e strumentalizzazione maggiori che in un procedimento giudiziario. Ciò aiuta a capire meglio l'insistenza con la quale Di Pietro ha lanciato e sostiene la sua proposta. Che rischierebbe, fra l'altro, di delegittimare il capo dello Stato in un Paese così stremato dalla crisi economica e finanziaria da avere avuto bisogno di ricorrere ad un governo tecnico patrocinato alla luce del sole proprio da Napolitano, vista la debolezza dei partiti e della politica. Un governo di cui, guarda caso, si desidera e si reclama la caduta, preferendogli il ricorso alle elezioni anticipate, proprio da parte di chi sta criticando e assediando in questi giorni il presidente della Repubblica. Ma, se non deve stupire, come dicevo, l'ostinazione di Di Pietro negli attacchi al capo dello Stato, sorprende invece l'ingenuità - spero solo questa - con la quale si torna a chiedere a Pier Luigi Bersani, anche dall'interno del Pd, di passare finalmente dalle espressioni di insofferenza verbale, o dalle minacce, ai fatti per chiudere la ormai troppo lunga storia di alleanza e collaborazione fra il suo vecchio e nuovo partito e l'ex magistrato simbolo delle inchieste Mani pulite. Quelle sul finanziamento illegale della politica e sulla corruzione che spesso l'accompagnava, sfociate nel crollo della cosiddetta Prima Repubblica. Un crollo dal quale tuttavia si salvò, o riuscì a subire i minori danni, solo l'allora partito di Bersani guidato da Achille Occhetto. Nei pressi del cui ufficio furono perse, fra l'altro, le tracce formalmente inseguite dalla Procura di Milano di una pesante tangente targata Enimont. Un caso, diciamo così, diabolico volle che, dopo avere lasciato la magistratura, e avere fatto pratica di ministro nel primo governo di Romano Prodi, il buon Di Pietro venisse in qualche modo adottato elettoralmente dal Pds-ex Pci, nel frattempo passato dalla guida di Occhetto a quella di Massimo D'Alema. Che lo candidò nel 1997 nel blindatissimo collegio rosso del Mugello facendolo approdare al Senato. Dove però Di Pietro dopo soli tre anni si prese la libertà di negare la fiducia al secondo governo Amato, succeduto su designazione dello stesso D'Alema ai due da lui guidati in un anno e mezzo dopo la caduta di Prodi. Un'altra libertà Di Pietro se la prese con il primo segretario del Pd-ex Ds-ex Pci-ex Margherita-ex sinistra democristiana eccetera eccetera, Veltroni, costituendo gruppi autonomi in Parlamento nel 2008, dopo un apparentamento elettorale con il quale si era impegnato a fare gruppo unico con l'alleato. E Veltroni accettò. Come Bersani probabilmente accetterà l'invito riformulatogli ieri in televisione da Di Pietro a tornare a Vasto nel mese di settembre per la replica della foto dell'anno scorso con lui e Nichi Vendola, emblematica o propiziatrice di un'alleanza elettorale evidentemente più indissolubile di un matrimonio cattolico, con i tempi che corrono alla Sacra Rota.

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