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di Camilla Conti «Non credo sia una bestemmia l'ipotesi di uscire dall'euro, così da poter pensare a procedere con una "svalutazione competitiva», dice Berlusconi.

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Afare un calcolo di quanto costerebbe a un Paese dell'Unione l'addio alla moneta unica ci aveva provato, a maggio, il colosso bancario svizzero Ubs prefigurando una situazione da collasso finanziario, economico e sociale. Certo, il riferimento principale era ad Atene ma nello scenario da armageddon finanziario erano stati fatti anche i conti in tasca al nostro Paese: per ciascun italiano il costo per abbandonare l'euro e tornare alla lira sarebbe compreso tra 9.500 e 11.500 euro all'anno, per almeno un decennio. Questo è dovuto al deprezzamento della lira sull'euro, valuta in cui dovrà continuare ad essere pagato il debito fino al 50%, cosa che porterebbe il rapporto Debito/Pil fino al 180%, prefigurando un temibile default. Una crisi dell'euro produrrebbe la svalutazione della lira, la quale gioverebbe alle esportazioni italiane, ma dovremmo fare i conti con un tasso annuo di inflazione a due cifre, come negli anni Ottanta, con la benzina a 6 mila lire al litro, con interessi sul debito non inferiori al 10% annuo. E non è detto che la ripresa dell'export possa avvenire del tutto, visto che il Nord Europa potrebbe innalzare barriere doganali come sistema di difesa per lo sfaldamento dell'Eurozona. Inferiore sarebbe il costo se la crisi euro facesse crollare la moneta un po' per tutti gli Stati, così come inferiore sarebbe il danno subito da ogni cittadino tedesco, per circa 6.500 euro il primo anno e almeno 3.500 euro per gli anni seguenti. Per questa ragione, Ubs aveva ritenuto preferibile che Berlino optasse per il salvataggio greco, che costerebbe ad ogni tedesco circa mille euro, molto meno di un'ipotesi di abbandono della moneta unica. Se i conti degli svizzeri non convincono, almeno fidiamoci degli economisti italiani. L'Istituto Bruno Leoni ha da poco editato un nuovo libro intitolato «Se va bene andrà peggio, scenari sull'eurocrisi» con la prefazione di Oscar Giannino in cui vengono confutati alcuni luoghi comuni sull'eurocrisi. Tranelli in cui i politici cadono spesso, o per eccesso di populismo o per semplice ignoranza. Tipo: «Con l'euro ci abbiamo solo perso, è stata una fregatura». Il mantra dei nostalgici della lira è la coda lunga del trauma da alta soglia di cambio, perché quella quota 1936 pattuita da Ciampi è rimasta impressa nella memoria di molti come una solenne fregatura. Ma gli stessi nostalgici dimenticano che l'euro ha avvantaggiato gli eurodeboli e l'Italia. In media, sono stati per noi 7 punti di Pil l'anno di minori interessi sul debito pubblico, prima che lo spread dall'estate 2001 esplodesse (punti poi purtroppo tradotti in aumento della spesa pubblica corrente, invece che in meno tasse e più investimenti) e per il secondo paese esportatore manifatturiero dell'Unione, operare a moneta unificata nel più grande mercato di consumo mondiale è stato un grande vantaggio per moltissime imprese. Un luogo comune tira l'altro ed ecco il mito dell'«usciamo dall'euro, torniamo alla liretta e tutto va a posto». Il ritorno alla lira, e una botta del 40-50% di svalutazione da incorporare come illusorio vantaggio nelle ragioni di scambio monetarie, è carburante di consenso. Ma la benzina finisce quando gli elettori si rendono conto che nel passaggio dall'euro a una divisa nazionale che valesse da meno di un terzo alla metà, la ridenominazione di attività e passività incrociate sull'estero porterebbe a fallimenti a raffica, oltre alla grande strage di potere d'acquisto che partirebbe con un'inflazione a doppia cifra. L'inflazione è da sempre amica dei grandi indebitati, in quanto abbatte il valore reale della loro esposizione. Il maggior beneficiario sarebbe quindi il più grande debitore: lo Stato. Al prezzo dell'uscita dall'euro vanno infine aggiunti gli ostacoli giuridici che incontrerebbe un addio volontario. Secondo glli esperti di diritto internazionale coinvolti nella gestione dei debiti sovrani, il punto di partenza da considerare è che non esiste un diritto di uscita dall'euro o dall'Europa, visto che i Trattati sono irrevocabili, fissati «per una durata illimitata». Di fatto dunque l'abbandono della moneta unica potrebbe avvenire solo con una revisione dei Trattati o con un atto unilaterale di uno Stato: ad ogni modo con un atto politico. Che però non è privo di conseguenze sul piano legale. Visto che l'euro continuerà ad esistere, le obbligazioni dello Stato emesse fino a quel momento come devono essere considerate? Rimarranno espresse e regolate in euro, o saranno convertiti nella nuova (vecchia) moneta, per esempio nella lira nel nostro caso? La conversione dell'obbligazione nella nuova moneta locale ha ovvie conseguenze nei confronti dei creditori, specialmente se essa dovesse svalutarsi dopo la sua (re)introduzione. In sostanza, si rischierebbe di finire in un ingorgo giuridico: i creditori internazionali che hanno acquistato (o sottoscritto) obbligazioni regolate dalle leggi straniere (soprattutto inglesi o americane) pagabili fuori dallo Stato uscente dall'euro manterranno la denominazione in euro del loro debito, sebbene dal punto di vista finanziario il deprezzamento della moneta locale comporterà comunque un aumento del rischio di credito. Viceversa, i creditori basati nello Stato uscente o che hanno obbligazioni regolate dal diritto domestico (di solito i cittadini che hanno titoli di Stato) potrebbe ritrovarsi il proprio credito convertito nella moneta nuova, e dunque esposto alla svalutazione. Attenzione, nessuno pensa che l'euro sia un bene assoluto: se i mercati restano separati e non sono messi in grado di funzionare come vasi comunicanti delle curve di costo e produttività, l'euro non può reggere. Ma non sarà certo abbandonando la moneta unica che si salverà l'Italia.

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