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di Ruggero Guarini Sulla faccenda dei temi per la maturità questa volta sembrano tutti contenti.

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Ese lo sono davvero bisogna ammettere che hanno ragione. Incontestabile, infatti, è l'interesse di ognuno dei sette argomenti proposti. «Il labirinto» è un fantastico soggetto mitologico, artistico e letterario. Le idee di Hannah Arendt sulla shoha sono insieme profonde e sottili. Il bene comune e individuale nel pensiero di san Tommaso D'Aquino e di Jean Jacques Rousseau è un problemino alquanto complicato ma inoppugnabilmente interessante, Succosa e stimolante è anche la questione dell'etica nella civiltà tecnologica alla luce del «principio di responsabilità» rilanciato da Hans Jonas. Simpatiche, benché un po' enfatiche e declamatorie, le parole con cui Paul Nizan si disse deciso a contestare a chiunque il diritto di considerare i vent'anni l'età più felice della vita. Apprezzabile, anche se un po' furbetta, la trovata di compiacere gli esaminandi invitandoli a trattare riflettere il tema «La crisi e i giovani» sulla base dei pensieri di Steve Jobs. Di suprema eleganza e intelligenza, infine, è il passo di Montale che i ragazzi sono stati invitati ad analizzare. Occorre però augurarsi che quelle righe, riguardanti certi aspetti repellenti della società industriale, non abbiano indotto qualche esaminando a pensare che quel grande poeta potesse, su quell'argomento, pensarla suppergiù come le tante mezze-cartucce culturali che da un pezzo, continuando a rimestare una muinestra ideologica di origine sessantottesca, deprecano ancora oggi il nostro tempo sermoneggiando su alienazione, mercificazione, omologazione, consumismo e altri analoghi malanni. Ai pochi o molti ragazzi che fossero caduti in questo equivoco converrebbe ricordare che Montale, nell'ultimo decennio della sua vita, ritenne indispensabile trafiggere i ridicoli miraggi di quegli anni con l'aculeo di un'ironia micidiale. Bersagli privilegiati dei versi di quell'estrema stagione furono infatti, come dovrebbe'essere noto, il Sessantotto, il catto-comunismo, la critica letteraria marxisteggiante, la retorica della «poesia civile», il populismo pasoliniano, il carrierismo accademico dei guru della sinistra, il cinismo delle neoavanguardie letterarie e altre simili delizie. I versi di quel decennio sono insomma un summa dei disgusti politici, sociali e letterari di un poeta che non condivideva nessuna delle fisine ideologiche di quel tempo. Essi hanno quindi il valore di un testamento etico-politico. Non è anzi esagerato sostenere che con il loro feroce sarcasmo, il timbro amabilmente prosastico, il ritmo spesso sapientemente zoppicante, fanno dell'ultimo Montale il più grande poeta satirico del suo e del nostro tempo – in ogni caso l'unico all'altezza di quel cocktail di infamia e idiozia che furono le subculture dominanti di quegli anni. Suppongo che la scoperta di questo Montale, per dei ragazzi che presumibilmente sono stati influenzati non poco, magari senza avvedersene, dalle idee di Pasolini, non pochi dei versi del Montale satirico degli anni Settanta potrebbero anche sembrare irritanti. Per incoraggiarli a scoprire anche quelli, ed eventualmente ad apprezzarli, suggerirei loro, comunque, di leggere in primo luogo le due poesie in cui Montale, in Diario del '71, chiamandolo nella seconda «Malvolio», ossia col nome dell'acido maggiordomo di Olivia nella Dodicesima notte di Shakespeare, derise appunto il retore di Casarsa. La prima («Dove comincia la carità») suona così: «Questa violenta raffica di carità | che si abbatte su noi | è un'ultima impostura. || Non sarà mai ch'essa cominci at home | come ci hanno insegnato alla Berlitz; mai | accadrà che si trovi nei libri di lettura. || E non certo da te, Malvolio, o dalla tua banda, | non da ululi di tromba, non da chi ne fa | una seconda pelle che poi si butta via. | Non appartiene a nessuno la carità. Sua pari | la bolla di sapone che brilla un attimo, scoppia, | e non sa di chi era il soffio». Nella seconda («Lettera a Malvolio») spiccano questi versi: «Ma dopo che le stalle si vuotarono | l'onore e l'indecenza stretti in un solo patto | fondarono l'ossimoro permanente | e non fu più questione | di fughe e di ripari. Era l'ora | della focomelia concettuale | e il distorto era il dritto, su ogni altro | derisione e silenzio. || Fu la tua ora e non è finita. | Con quale agilità rimescolavi | materialismo storico e pauperismo evangelico, | pornografia e riscatto, nausea per l'odore | di trifola, il denaro che ti giungeva.| No, non hai torto, Malvolio, la scienza del cuore | non è ancora nata…». Dei ragazzi che occorre presumere intelligenti dovrebbero capire subito che l'oggetto dello scherno di entrambe queste poesie è manifestamente la vanesia ostentazione di quei sentimenti umanitari che il poeta delle Ceneri di Gramsci seppe a lungo sbandierare riciclando astutamente frattaglie marxiste e coratelle cristiane. E ciò finalmente potrebbe incoraggiarli a sospettare che gran parte della chiacchiera culturale degli ultimi anni consiste nel riciclaggio perpetuo delle più sfilacciate rimanenze della retrobottega comunista. Infine non sarà inopportuno osservare che anche questa inesplicabile sopravvivenza della nostra gauche culturale sui cocci di tutti i suoi miraggi sembra confermare un'altra convinzione di Montale, ossia che la storia, da sempre idolatrata dai maestrini della gauche, è esattamente la dea capricciosa e strafottente che fu da lui descritta in questa sua tarda poesia: «La storia non si snoda | come una catena | di anelli ininterrotta. | In ogni caso | molti anelli non tengono. | La storia non contiene | il prima e il dopo, | nulla che in lei borbotti | a lento fuoco. | La storia non è prodotta | chi la pensa e neppure | da chi l'ignora. La storia | non si fa strada, si ostina, | detesta il poco a poco, non procede | né recede, si sposta di binario | e la sua direzione | non è nell'orario. | La storia non giustifica | e non deplora, | la storia non è intrinseca | perché è fuori. | La storia non somministra carezze o colpi di frusta. | La storia non è magistra | di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve | a farla più vera e più giusta. | La storia non è poi ! la devastante ruspa che si dice. | Lascia sottopassaggi, cripte, buche | e nascondigli. C'è chi sopravvive. | La storia è anche benevola: distrugge | quanto più può: se esagerasse, certo | sarebbe meglio, ma la storia è a corto | di notizie, non compie tutte | le sue vendette. | La storia gratta il fondo | come una rete a strascico | con qualche strappo e più di un pesce sfugge. | Qualche volta s'incontra l'ectoplasma | d'uno scampato e non sembra particolarmente felice. | Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha parlato. | Gli altri, nel sacco, si credono | più liberi di lui». Avranno mai, i nostri educatori, il coraggio di proporre a un esame di maturità l'analisi di questo sberleffp in versi a tutti i tifosi della storia?

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