Dio strabenedica la Regina
I sessant’anni sul trono di una Regina d’Inghilterra valgono più di 66 anni di Repubblica italiana? No, il fatto è che ci sono nazioni che vanno orgogliose dei propri simboli, delle loro liturgie, dei loro momenti fondanti e delle loro Istituzioni; nazioni che non si vergognano di festeggiare la propria unità e non si sognerebbero mai di fare il conto della serva (con tutto il rispetto per le domestiche, che non c’entrano nulla) su quanto possa costare far decollare le squadriglie aeree migliori se si tratta di celebrare la propria identità, l’idea stessa di comunità e di coesione sociale. Il parallelo tra Inghilterra e Italia è inevitabile, dato che ieri la televisione inglese ha trasmesso in diretta le celebrazioni (in corso da ben quattro giorni) per il Giubileo di Diamante della Regina Elisabetta II, da sessant’anni sul trono del Regno Unito. Nelle stesse ore, in Italia, si ascoltavano gli strascichi delle critiche mosse alla parata del 2 giugno, Festa della Repubblica, perché sarebbe costata troppo o perché andava cancellata dopo il terremoto. Ma che Paese è una nazione che rinuncia alla propria Festa nazionale perché pochi giorni prima c’è stato un terremoto che quella festa, al contrario, avrebbe dovuto rafforzare per farci sentire tutti più italiani in un momento di crisi e di emergenza? Un Paese dove gran parte della politica sceglie di fare una parata a metà, senza gli aerei, senza i corazzieri a cavallo, come se il taglio di quelle poche spese - e non degli sprechi pubblici e amministrativi - ripagasse gli emiliani del dolore e dei danni economici e morali subiti per colpa di una natura maligna. Dovrebbero proiettarle nelle scuole italiane le immagini dei festeggiamenti inglesi di ieri, in nome della Regina. Sfarzo senza tabù, la bandiera dell’Union Jack stampata ovunque, su ombrelli, borse, fazzoletti. L’orgoglio di un popolo. Mille barche in regata, sul Tamigi, con lei, la protagonista, The Queen, in abito bianco e sacrale: un cappottino tempestato di cristalli Swarosky, omaggio al fiume di Londra, disegnato dalla sarta personale Angela Kelly, spilla di diamanti sul petto. Un picchetto d’onore, e poi l’imbarco sulla Royal Barge del Britannia, arredata con 10mila fiori freschi, colore predominante il rosso (lo stesso dell’abito della sempre sorridente Kate, moglie dell’amato nipote William), sino alla chiatta Reale, per assistere alla parata. Perché il Potere e la politica senza simboli sono moribondi. Gli inglesi, che sono nazione da secoli e non da 151 anni come noi italiani, lo sanno bene e sfilano, applaudono e cantano God Save the Queen, Dio salvi la Regina. E mentre da noi ci si affida alla calcolatrice per non far volare le Frecce Tricolori, a Londra va in scena una celebrazione che non si vedeva da tre secoli e mezzo, tanto è stato lo sfarzo: chiatte, vaporetti, rimorchiatori, vascelli con testa di drago e canoe. Tra le navi 265 a remi, 48 pescherecci, 60 cabinati, 55 navi storiche. La più vecchia ha 260 anni ed è la St Michael’s Mount Barge. Duecentosessanta anni fa, nel 1752, l’Italia era meno di un’espressione geografica e se continueremo con queste polemiche provinciali e con una classe politica incapace di pensare in termini di Paese, torneremo ad esserlo. Se non vogliamo prendere esempio dalla Regina, basta guardare al di là delle Alpi, alla Francia. Ai cugini non gli passa neanche per la testa di applicare l’aggettivo «sobrio» ai festeggiamenti del 14 luglio, giorno di festa nazionale: parata militare sugli Champs-Elysées e cerimonie nella maggior parte dei comuni, con fuochi d’artificio sparati in aria per tre giorni. In Italia, dove per anni abbiamo fotografato Umberto Bossi con l’ampolla d’acqua del Po in mano e chiesto ai calciatori della Nazionale di cantare l’Inno di Mameli prima dei match, ci siamo inventati il 2 giugno mignon, facendo andare a piedi i corazzieri, e non è (purtroppo) una vecchia battuta di Renato Rascel. Speriamo non accada mai più. E che Dio strabenedica gli inglesi.