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di Marlowe Se il padre di tutti i moderni speculatori, George Soros, e il numero uno del maggiore organismo mondiale che ha come compito di combattere la speculazione, la direttrice del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde, dicono

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Ilfinanziere americano-ungherese non ci è mai stato simpatico, nonostante la recente riverniciatura ecologista e politicamente corretta: tra le canaglie continuiamo a preferire il suo allievo cinematografico Gordon Gekko. E soprattutto noi italiani, e ancora più la nostra sinistra che ha adottato Soros, non dovremmo mai dimenticare che fu grazie alla sua speculazione contro la lira nel 1992 che il nostro paese dovette piegarsi a una svalutazione lacrime e sangue, e poi alle condizioni giugulatorie alle quali entrammo nella moneta unica il 31 dicembre 1998. Tra queste non ci fu solo il tasso di cambio-monstre imposto dalla Germania alla lira, mentre il marco ottenne il rapporto di uno a due, di fatto riprendendosi ciò che secondo tutti gli esperti avrebbe dovuto essere il corretto rapporto della riunificazione tedesca, che invece avvenne alla pari. Ciò che non chiedemmo allora, e oggi ne paghiamo il conto, furono efficaci barriere contro gli assalti dei mercati. Né una banca centrale garante, né quei fondi salva-stati arrivati male e in ritardo. Ma lo speculatore fa il suo mestiere. Lunare è invece la condotta della Lagarde. Il Fondo monetario non è una banca d'affari né un'agenzia di rating: è un'istituzione pagata dai contribuenti di 186 stati, dei quali l'Italia è il settimo. Su 11 direttori eletti dal 1946 a oggi, la Francia ne ha avuti cinque, un record. Il predecessore Dominique Strauss-Khan è stato travolto dallo scandalo sessuale. Christine è invece chiacchierata da quando si è scoperto che il suo ragguardevole stipendio e indennità - 551.700 dollari - sono esentasse. Con le spalle così coperte ci si aspetterebbe che la Lagarde dedicasse il proprio tempo a cercare di risolvere i problemi. Al contrario, la sua voce si è unita a quella degli speculatori professionali, e dei rumors sull'Italia prossima vittima pubblicati sul New Tork Times, sul Wall Street Journal, sul Financial Times. Anche questi giornali fanno il loro lavoro; ma il problema è: che fanno la Lagarde e quelli come lei? Ne abbiamo abbastanza di altissimi papaveri europei e mondiali capaci solo di complicare le cose anziché prendere le decisioni per le quali sono lautamente retribuiti. Un giorno si scoprirà quanto il nostro salatissimo debito pubblico e relativi interessi, e con essi i sacrifici che ci stiamo sobbarcando, sono dovuti ai nostri trascorsi da cicale, e quanto agli interessati allarmi di chi dovrebbe tutelarci dalla speculazione, e spesso sono anche nostri partner. Ultima, ieri, la ministra delle finanze austriaca, Maria Fekter: «L'Italia potrebbe avere presto bisogno di aiuto». Ma basta vedere che cosa è successo dopo i 100 miliardi di aiuti erogati nel weekend alle banche spagnole. L'Italia ha pagato dazio due volte: la prima per il rischio contagio evocato dal circuito finanziario che ha fatto schizzare lo spread oltre i 480 punti, riportando i tassi decennali sopra il 6 per cento, e la seconda volta come paesi creditori verso quelli a rischio: finora abbiamo stanziato 48 miliardi per Grecia, Irlanda e Portogallo, ai quali potrebbero aggiungersene altri 20 a seconda dello strumento scelto per il salvataggio spagnolo (già, perché tra le altre cose ancora non si sa in che modo l'Europa correrà al capezzale). Il tutto per un sistema, quello iberico, che vede non noi, ma la Germania, la Francia e la Gran Bretagna come paesi più esposti, e non per bruscolini: le banche tedesche hanno investito 147 miliardi. Da qui la decisione di intervenire rapidamente, a differenza che con la Grecia, e salvando la faccia al governo di Madrid. Ma da qui anche l'incertezza codina sullo strumento da usare. Se fosse il fondo salva-stati (Efsf), i contribuenti europei, noi compresi, dovrebbero rimettere mano al portafoglio. Se si scegliesse il nuovo fondo permanente (Esm) la cifra non graverebbe sui bilanci pubblici, ma il rimborso avrebbe priorità su tutti gli altri creditori: banche tedesche in primis. La decisione è tanto per cambiare nelle mani di Angela Merkel e degli eurocrati di Bruxelles e Francoforte. Ma quello che dovremmo chiederci come italiani, e ancora più dovrebbe chiederselo la nostra classe politica, è: quanto contiamo noi in tutto questo? E qui si arriva alla questione posta ieri da Mario Sechi: l'Italia, lo Stato, sta perdendo sovranità. Ed a togliercela non sono solo gli speculatori alla Soros, ma anche i governi «alleati». Eppure è il dibattito che tra Berlino, Parigi e Londra infuria da tempo; che è stato al centro delle elezioni presidenziali francesi e del no di David Cameron al fiscal compact. Sappiamo tutto sugli eurobond, sul loro potere risolutore e sui reiterati nein della Merkel. Ma nulla o quasi sappiamo di ciò che i tedeschi chiedono in cambio: una cessione formale di sovranità all'Unione europea su finanza pubblica, tasse, pensioni, transazioni finanziarie. Qui è la Francia a opporsi, come sempre da De Gaulle in poi. Giusto per far capire le proprie intenzioni, Hollande ha riportato l'età di pensione a 60 anni, dai 62 per i quali si era impegnato Sarkozy (e rispetto ai 67 nostri). E Cameron ha detto che mai e poi mai accetterà la Tobin tax sulla finanza voluta dalla Merkel. Tutte faccende che volano sulla nostra testa, e su quella del governo Monti, esattamente come lo spread e gli interessi. Eppure una classe politica seria dovrebbe informarne i cittadini e soprattutto chiedere se e fino a che punto sono disposti e cedere sovranità in cambio di stabilità economica. Dovrebbero farlo ora, prima delle elezioni del 2013. Ma i partiti, e anche il governo, sono in tutt'altre faccende affaccendati, dalla Rai alle nomine nelle authority, e ora pure all'Inps.

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