«Ho vissuto mesi nel terrore di perdere la mia credibilità.
Misono chiesto più volte se fossi proprio io quello che raccontavano le carte giudiziarie, l'inchiesta in cui sono finito senza ancora riuscire a spiegare a me stesso perché. Adesso che il caso è chiuso continuerò ad occuparmi delle vittime della giustizia. Ci sono passato anch'io, so cosa si prova, non posso fare altrimenti». Monsignor Giovanni D'Ercole è vescovo ausiliare de L'Aquila. È stato mandato dalla Curia nel capoluogo abruzzese dopo il terremoto del 2009. Si è dato subito da fare per cercare di contribuire alla ricostruzione della città. È finito nell'inchiesta sui cosiddetti fondi Giovanardi: 12 milioni di euro stanziati dal dipartimento Famiglia, allora guidato dal sottosegretario Carlo Giovanardi, per finanziare opere di ricostruzione a L'Aquila e dintorni. La fondazione Abruzzo Solidarietà e Sviluppo, creata da più soggetti con la collaborazione del vescovo e del vescovo ausiliare, è finita nel mirino della magistratura, che ha ipotizzato una tentata truffa per ottenere una parte di quei 12 milioni. D'Ercole non è stato accusato di truffa. Ma di aver rivelato informazioni coperte da segreto istruttorio. Di avere in qualche modo aiutato i personaggi che, secondo l'accusa, volevano mettere le mani sui soldi. Due giorni fa D'Ercole è stato prosciolto per non aver commesso il fatto. Monsignor D'Ercole, come si sente adesso? «Sono stato liberato da un incubo. Per mesi non ho dormito la notte. Essere descritto come un truffatore mi ha davvero sconvolto. Ho avuto anche il senso di colpa nei confronti della Chiesa, che è già attaccata da più parti. Ci mancava soltanto questa vicenda. Sono stato tentato di abbandonare tutto». Ma come è finito nell'inchesta? «Me lo chiedo anch'io. Sono arrivato a L'Aquila con la voglia di aiutare tutti. Uno dei due rinviati a giudizio mi presentò Giovanardi, che mi chiese di fare qualcosa per evitare di perdere i milioni di euro che servivano per la ricostruzione. Gli dissi che la diocesi non poteva fare grandi cose ma mi sono dato da fare per mettere insieme diversi soggetti, tra cui i Comuni, affinché, insieme, potessero agevolare la ricostruzione». Invece secondo l'accusa i soggetti principali della vostra fondazione volevano mettere le mani sui fondi Giovanardi... «Esatto. Il problema è che in pochissimo tempo questo procedimento giudiziario è diventato il "processo D'Ercole" benché io non ne sapessi niente e avessi sempre agito soltanto per aiutare i cittadini. Sostenevano che io fossi coinvolto in un tentativo di truffa. Ma i soldi sono sempre rimasti al ministero». Il pm ha avuto molti sospetti. «L'ho incontrato 4 volte. La prima volta mi ha interrogato come persona informata sui fatti. Alla fine mi salutò dicendomi che ci saremmo rivisti in altre e diverse occasioni. Ero convinto che fosse tutto chiarito». Invece... «Mi ha risentito come indagato. Gli dissi: "Si renda conto che io non ho fatto niente". Sono stato accusato sulla base di un'intercettazione telefonica in cui parlavano altre persone. Il pm era convinto che dalle espressioni che usavano i due al telefono io avessi avuto un ruolo. Ma possibile che le accuse si costruiscano in questo modo? Sono davvero perplesso. Leggevo i giornali e venivo a conoscenza delle cose che mi riguardavano, di ciò che avevo detto al pm, leggevo i testi delle intercettazioni. Una volta ho chiesto al magistrato: "Mi scusi ma perché tutte queste cose escono sui giornali?". E lui: "Mica le facciamo uscire noi". E io: "E chi allora?". Ancora adesso sono peplesso su questi metodi». Ha perso fiducia nella giustizia o il fatto che poi lei sia stato prosciolto le ha confermato che alla fine la verità esce fuori? «Ho più fiducia nella magistratura che giudica rispetto a quella che formula le accuse. Insommma, basta un avviso di garanzia e sei già condannato. Mi hanno fatto apparire come un intrallazzatore» Adesso continuerà a occuparsi delle vittime della giustizia. «Vede, un giorno ho ricevuto una lettera da una ragazza di nome Alice. Scriveva: "Se anche tu sei così io non ho più nulla da chiedere a questa vita di merda". Ho deciso di scrivere un libro per risponderle, ho ripercorso la mia vita e la mia disavventura giudiziaria per dimostrarle che c'è speranza. Non è un caso che il titolo del mio libro sia "Nulla andrà perduto". Continuerò a occuparmi di chi finisce nella macchina della giustizia, voglio difendere chi non ha voce. La gustizia non è fatta da carte, come mi ha ripetuto più volte il pm che si è occupato del mio caso. No. La giustizia è fatta da uomini. I magistrati non hanno in mano dossier ma persone. Prego continuamente per una giustizia umana». Che le dicono adesso le persone che le stanno vicino? «Mi abbracciano e mi dicono di non abbandonarli. Quando sono arrivato qui tre anni fa una signora mi disse che dovevo restare per almeno 50 anni, pochi giorni fa mi ha detto invece che devono essere 150 anni».