La lobby irriformabile è quella dei magistrati
Mario Monti non ha avuto bisogno, beato lui, di incorrere personalmente in alcuna iniziativa giudiziaria, almeno sino a questo momento, per sperimentare quanto forte, decisamente il più forte dei cosiddetti poteri forti su cui lui forse scherza troppo, sia in Italia quello dei magistrati. Se avesse avuto ancora qualche dubbio in materia, può avere contribuito a farglielo passare ieri, a chiusura di un'acida polemica durata due giorni, Eugenio Scalfari. Che è tornato sulla richiesta, avanzatagli domenica, di tagliare la testa al suo sottosegretario Antonio Catricalà precisandone meglio la colpa: quella di essere entrato in conflitto politico, chiamiamolo così, con la potentissima casta giudiziaria. In un primo momento, nel consueto editoriale festivo, il fondatore de "La Repubblica" se l'era presa con Catricalà per i suoi rapporti troppo consolidati di amicizia con Gianni Letta, il braccio destro dell'odiatissimo Cavaliere. Così come se l'era presa con il capo di Gabinetto di Monti al Ministero dell'Economia, Vincenzo Fortunato, e con il Ragioniere Generale dello Stato, Mario Canzio, per i loro passati rapporti di collaborazione, e per quelli di perdurante amicizia o stima, con l'ex ministro Giulio Tremonti. Che è inviso a sinistra quasi quanto Silvio Berlusconi, pur essendo stato per un po' corteggiato da quelle parti, quando aveva dato l'impressione, a torto o a ragione, di essere disponibile a succedere all'allora presidente del Consiglio pugnalandolo più o meno alle spalle. Vista la difesa fattane prontamente da Monti, con una lettera, per l'obbligo di tutelare la dignità dei suoi collaboratori di fronte al tentativo odioso di discriminarli per le loro relazioni o simpatie personali con persone non gradite ai censori di turno, Scalfari ha insistito rinfacciando a Catricalà la partecipazione alla stesura di un disegno di legge ordinario per modificare, fra l'altro, "le proporzioni tra membri togati e membri laici, a favore di questi ultimi, negli organi disciplinari della magistratura". Disegno di legge rapidamente riposto nei cassetti per decisione di Monti al primo e non certo disinteressato apparire delle indiscrezioni sul suo contenuto, e delle relative, puntualissime proteste del sindacato delle toghe, e di chi da tempo ne raccoglie anche i sospiri nel Consiglio Superiore della Magistratura. A partire naturalmente dal vice presidente di turno: vice del capo dello Stato, che presiede di diritto quell'organo per tutta la durata del suo mandato al Quirinale. La pur sollecita sensibilità dimostrata da Monti alle proteste della casta giudiziaria, motivata in realtà più per la natura ordinaria e non costituzionale del disegno di legge che per il suo contenuto, non è evidentemente bastata al potere fortissimo dei magistrati e dintorni. Catricalà va insomma cacciato a calci nel sedere da Palazzo Chigi e tenuto lontano da qualsiasi altro al quale volesse accostarsi. Egli ha osato troppo per essere considerato ancora, per i suoi trascorsi professionali, tra i servitori dello Stato. E ringraziasse il buon Dio che a nessun pubblico ministero sia ancora venuta in testa l'idea, visto anche che egli non è coperto da alcuna immunità, di chiederne e ottenerne l'arresto da parte di qualche giudice compiacente per attentato - che so? - al funzionamento dello Stato, o cose del genere. È un rischio, quest'ultimo, per quanto paradossale, che potrebbe correre anche il ministro della Giustizia Paola Severino se le venisse la tentazione di impuntarsi davvero, sino a sollecitare e ottenere il ricorso del governo alla fiducia, sull'emendamento presentato in Senato ad una legge comunitaria per rendere obbligatoria, sino al 50 per cento della retribuzione annua, la rivalsa dello Stato sul magistrato che con i suoi gravi errori gli avesse procurato una condanna al risarcimento dei danni procurati ad un incolpevole cittadino. Una cosa, questa, ragionevolissima, ma considerata lo stesso un affronto e un attentato alla loro indipendenza, autonomia, eccetera eccetera dalle toghe prontamente mobilitatesi per lasciare le cose come stanno. Cioè per continuare a sbagliare rispondendone il meno possibile, o per niente.